Speravamo di più

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Anita Pittoni sotto la lente di Rossella Cuffaro

di Fulvio Senardi

 

Nella benemerita collana d’arte della Fondazione Crtrieste (con più di venti volumi già pubblicati) esce il libro di Rossella Cuffaro, con introduzione di Alessandro Del Puppo, un volume su cui ha già richiamato l’attenzione Roberto Curci, ma con messa a fuoco diversa dalla mia. Il programma di lavoro suona del tutto condivisibile: «per capire una personalità così dinamica, anticonformista, complessa e per certi aspetti geniale», suggerisce Cuffaro, «bisogna ripercorrere con attenzione la sua vita e quella delle persone affettivamente importanti che l’hanno attraversata e in un certo senso condizionata. Solo in tal modo è possibile comprendere molte delle sue scelte lavorative, sia nel campo dell’artigianato che, poi, in quello culturale ed editoriale» (131). Un proposito però, alla prova dei fatti, ampiamente disatteso. Se molta cura (e belle immagini) viene infatti dedicata ad illustrare l’opera della Pittoni, artista-artigiana aggiornatissima e ispirata, e con acme di attività negli anni Trenta, il lungo periodo successivo alla Seconda guerra mondiale, che vede prevalere, nel prisma sfaccettato dei suoi impegni, quella di organizzatrice culturale, editore, scrittrice e poetessa non riceve da parte di Cuffaro alcuna attenzione. Ciò ha in parte una sua logica se pensiamo alla qualificazione della collana dove il libro è stato pubblicato, una “Collana d’Arte”, ma conduce al risultato di una lettura parcellizzata perché legata a un singolo segmento di un lungo percorso esistenziale e creativo.

Insomma, il ritratto che ne esce non è quello a tutto tondo di una protagonista della cultura triestina, ma soltanto uno spicchio di esso, decisamente parziale. Certo, si potrà sostenere che sull’attività editoriale della Pittoni esiste la bella riflessione di Sandra Parmegiani (Far libri. Anita Pittoni e lo Zibaldone, Parnaso, 1995) e che la scrittrice e poetessa, anche in dialetto, è stata sondata da Cristina Benussi, Roberto Curci e Gabriella Ziani (nell’esemplare Bianco rosa e verde. Scrittrici a Trieste fra ‘800 e ‘900, Lint 1993) e da chi scrive (per la lirica in dialetto). Resta il fatto che in questo saggio l’intero sfugge e per coglierlo è necessario appoggiarsi ad altre letture. Quando invece anche una sintesi, magari scarna, del percorso della Pittoni letterata (di cui pure Cuffaro cita un paio di poesie, ma con funzione meramente illustrativa e/o retorica) avrebbe dato un quadro più completo.

In coerenza con questa scelta anche il rapporto con Giani Stuparich, fondamentale per capire la “seconda” Pittoni, viene compresso in una narrazione di due paragrafi, p. 135 (e sono vent’anni di vita!) quando ormai di questo amore sappiamo tutto, vuoi per gli scritti della stessa Pittoni, vuoi per i riflessi in Trieste dei miei ricordi e nelle poesie di Stuparich, vuoi per gli accenni disseminati nei testi degli amici scrittori; una relazione di cui perfino l’inizio è stato chiarito grazie al diario degli anni 1944-45 pubblicato dall’editore SVSB di Trieste nel 2012. Altro punto dolente del libro di Cuffaro è nelle note (fra l’altro di difficile lettura per i caratteri minuscoli, scelta infelice e discutibile dell’editore), a volte inutilmente prolisse, in altri casi inaccurate. Che «l’accesso al balcone» dello studio Wulz «avveniva tramite lo stipite inferiore della porta-finestra, un largo gradino rialzato rispetto al pavimento» (p. 47, nota 27), ci interessa poco e poco interessa ai fini del ritratto pittoniano; infastidisce però che Valentino Pittoni venga definito «figura di spicco del Partito socialista italiano» (p. 46, nota 16), mentre era figura di spicco della “Sezione italiana adriatica del Partito operaio socialista in Austria” (cosa alquanto diversa) e che a Carolus Cergoly vengano attribuiti «versi dialettali venezianeggianti» (n. 69, p. 49). Per altro anche qua e là nel testo spicca qualche imprecisione, per esempio relativamente al fatto che «nel 1917 Trieste era venuta a trovarsi in prima linea nei combattimenti tra italiani e austroungarici», p.132 (e nel 1915, e nel 1916?), e che a quel diciassette si leghi la pratica dell’internamento degli irredentisti che invece dopo l’ascesa al trono di Carlo I era stata sostanzialmente sospesa o ridotta. Quanto al fascismo e all’antifascismo poi, nel contesto di una valutazione condivisibile della posizione della Pittoni come sostanzialmente “impolitica”, nulla dimostra il fatto che essa «era grande amica, da tempi non sospetti, di ebrei come Saba e gli Stuparich» (p. 58) addotto a testimonianza dell’indifferenza dell’artista nei confronti della politica. Da un lato va ricordato che l’élite culturale triestina era una comunità ben affiatata, in cui l’ebraismo non aveva mai rappresentato un problema (si pensi solo alla presenza ebraica nel Partito liberal-nazionale) dall’altro impossibile considerare Saba (e meno che meno Giani Stuparich, su tutt’altra lunghezza d’onda) esponente di un ebraismo convinto e praticato.

Insomma, vale per Cuffaro come per ogni saggista: non basta suonar bene il tema principale, ma conta anche, eccome, l’accompagnamento. Altra perplessità suscita la scelta di ordinare tutta la bibliografia, anche quella non squisitamente pittoniana, in ordine cronologico. Ora, la cronologia è importante per seguire la fortuna di un autore nei suoi momenti di dibattito e nelle sue alterne fasi (utile per esempio sapere che Croce scrisse i suoi primi due saggi di critica dannunziana nel 1903 e nel 1907, Borgese la monografia nel 1909 e Gargiulo il suo libro su D’Annunzio nel 1912: ci dà un’importante chiave d’accesso alla natura e ai contenuti del dibattito nella sua fattispecie ideologico-culturale). Ma che senso ha che il lettore scovi qualche informazione sull’esotico nome di Ben Ghiat citato in nota a pagina 108 (ma non nell’indice dei nomi), in una bibliografia esposta annalisticamente, come se Ruth Ben Ghiat avesse partecipato al dibattito su Anita Pittoni (uso per altro consueto in questo volume, vedi Hace Citra, Derossi, ecc.)? E qui scaturisce un’altra curiosità: il saggio di Ben Ghiat sulla cultura fascista appare in italiano nel 2004, ovvero 18 anni fa. Ci chiediamo: da quel momento non è stata pubblicata nessun’altra opera dedicata al tema più degno di menzione (mi viene in mente la ventina di volumi sul fascismo e dintorni che Emilio Gentile ha scritto negli ultimi decenni, oppure l’ottimo saggio di Alessandra Tarquini su fascismo e cultura di qualche anno fa)? È certamente possibile che Cuffaro giudichi il libro di Ben Ghiat, nel suo tema specifico di storia culturale, superiore ad ogni altro del presente e del recente passato, ma allora deve motivare, altrimenti si ricava l’impressione che l’incontro con Ben Ghiat sia semplice frutto del caso e non risultato di approfondimento e riflessione. Ancora sulla bibliografia. È sensato alludere a un’opera dalla quale si cita un singolo saggio (G. Norio, Lavorare per la storia: l’archivio di Anita Pittoni, in Ricordando Anita Pittoni. Atti della giornata di studio, Trieste 2013) senza poi che si trovi da qualche parte nel libro la completa indicazione bibliografica di tali fantomatici Atti (e qui siamo ai limiti dell’occultamento), ai quali, aggiungiamo per inciso, ha contribuito con un saggio la stessa Cuffaro? Non so che lavoro faccia Rossella Cuffaro, ma mi pare perfettamente intonata con il giornalismo culturale italiano, spesso rappresentato da maestri del pressappoco scarsamente attenti ai particolari, con l’effetto di alimentare la tendenza all’imprecisione che ormai domina nel discorso dei Media e, ne ho molte prove, nella semi-cultura dell’italiano medio.

 

 

 

Rossella Cuffaro

Anita Pittoni

Un’artista tra futurismo,

avanguardie e modernità

Fondazione CRTrieste

Trieste, 2022

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