Svevo e Schnitzler, malinconie d’artista

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L’intorpidirsi di una vocazione letteraria in lunghi anni di protratta senilità, un soggetto per due scrittori

di Fulvio Senardi

 

 

Se sarebbe indubbiamente azzardato sostenere che le vite di Italo Svevo (all’anagrafe Ettore Schmitz) e di Arthur Schnitzler si siano svolte in parallelo, non mancano stringenti analogie. Comune l’appartenenza asburgica, svoltasi in due delle più grandi città dell’Impero (la prima e la terza, per l’esattezza); vicini gli anni di nascita e di morte (Svevo: 1861-1928; Schnitzler 1862-1931), tali da collocare gli scrittori in una stessa temperie, il dispiegarsi dell’età liberale austriaca, che si chiude politicamente nel 1879, quindi il declino dell’impero, sempre più lacerato dalle questioni nazionali e incapace, anche sul piano istituzionale, di fare fronte al nuovo, poi la finis Austriae dopo la catastrofe militare del 1914-18; simile l’appartenenza sociale, il ceto della borghesia mercantile per Svevo che in quell’ambiente nasce e in quell’ambiente rientra grazie al matrimonio con Livia Veneziani (1896), la borghesia delle arti liberali per Schnitzler, figlio di un medico e medico egli stesso; contigui gli interessi narrativi: sono entrambi quasi quarantenni alla svolta del secolo, ma per loro l’Ottocento è solo un trampolino per lanciarsi verso orizzonti nuovi, elaborando inediti strumenti d’analisi dell’animo umano, in una prospettiva antropologica del tutto inusitata, dove l’oscuro, il nascosto, l’inconfessato, il “sottosuolo” attraggono ben di più di ciò che è esposto alla piena luce della ragione e che risulta perfettamente spiegabile secondo canoni di indagine “cartesiani”. Da qui l’interesse per Freud e per la psicoanalisi che tutti e due coltivano, con più ironico distacco Svevo (“grande uomo quel nostro Freud, ma più per i romanzieri che per gli ammalati”, scriverà nel 1927 a Valerio Jahier), con partecipazione più incondizionata Schnitzler, cui Freud scrisse, nel maggio 1906, un famoso messaggio, manifestando la consapevolezza e l’orgoglio di una vicinanza intellettuale e lo stupore per i risultati raggiunti dallo scrittore nella conoscenza dell’uomo, tale anzi, confessava al concittadino, da trasformare l’ammirazione in invidia: un grande atto d’omaggio, questo il senso dell’espressione, al suo illustre “doppio” letterario; affine, per continuare, il ruolo che viene riconosciuto a Schnitzler e a Svevo quanto all’avvio della modernità letteraria (del “modernismo”, per coloro che ancora intonano la litania degli “ismi”): la sperimentazione del monologo interiore e del flusso di coscienza, artifici che vanno a merito dello Schnitzler dei racconti (ben più avanzato del romanziere e del drammaturgo, ruoli che obbligano a un maggior rispetto del gusto dei più), l’erosione della forma-romanzo che la Coscienza di Zeno totalmente rinnova, con quella messa in opera segmentata e slabbrata di vicende e temi narrativi che ha inferto un colpo mortale alla tranche-de-vie così cara al realismo ottocentesco (e al romanzo di consumo dei nostri giorni), quella originalissima “parola” costantemente “contaminata dall’instabilità della pulsione” (Fabio Vittorini), quell’innovativo sguardo sghembo che disarticola e deforma tutto ciò che vede.

Dietro ad entrambi gli scrittori, ed è certo un elemento cruciale, il fantasma dell’ebraismo degli assimilati, un modo di essere così, intuitivamente, condizionante, quanto difficile da valutare su un piano specificamente culturale. Edgar Morin (pseudonimo di Edgar Nahoum), il grande filosofo francese che si avvia al traguardo dei cent’anni, non ha dubbi in proposito (ma è, come si è ben capito, parte in causa): “le ambiguità, le incertezze, le domande, le inquietudini della doppia identità ebreo-gentile sono state l’origine di alcune fra le più notevoli creazioni della cultura europea. […] La loro situazione relativamente sradicata rispetto alla tradizione ebraica e alle tradizioni dei gentili, fa sì che gli imprinting culturali dell’una e delle altre segnino gli intellettuali ebreo-gentili in modo minore rispetto ai gentili normali e agli ebrei ortodossi. Le loro incertezze e inquietudini favoriscono le grandi interrogazioni. Le evidenze intellettuali o estetiche pesano meno su di loro che sugli altri. Interrogazioni, incertezze, marginalità li predispongono alla devianza e talvolta alle trasgressioni. Così come gli orfani, i bastardi, gli emarginati (come gli omosessuali) potranno attualizzare delle virtualità creative presenti in tutti, ma spesso assopite, così anche la situazione semiorfana e bastarda degli ebreo-gentili favorirà la creatività intellettuale ed estetica” (Il mondo moderno e la questione ebraica).

Se, per tornare al tema, quel poco che Svevo ha preso da Schnitzler (che aveva letto) ci precipiterebbe in una spirale di discutibili questioni filologiche, resta il fatto che è possibile individuare un punto in cui, quanto ai temi narrativi e al loro svolgimento, i due percorsi creativi quasi si toccano. E, aggiungiamo, a reciproca insaputa, e quasi paradossalmente. Sì, perché si tratta da un lato di uno Schnitzler tardo-romantico ancora alla ricerca di sé, dall’altro dello Svevo smaliziato che “surfa” sull’onda lunga della Coscienza. Parliamo, per la precisione, di due racconti lunghi, collocati l’uno pressappoco all’inizio della parabola di Schnitzler scrittore (risale probabilmente al 1895, come spiegano W. Hemecker e D. Österle, i due studiosi che ne hanno curato l’edizione), l’altro alla conclusione del percorso terreno e artistico di Svevo. Il tema è grosso modo lo stesso: l’intorpidirsi di una vocazione letteraria in lunghi anni di protratta senilità, che scorrono quasi privi di rimpianti e che però si accendono, con frenesia improvvisa, appena spunta la rosea chimera di una fama inattesa, con l’illusione, finalmente un bacio del destino!, di un guizzo di gloria dopo lontani e promettenti inizi, subito ingrigitisi però nell’usura della quotidianità, quasi a sintomo di un modo rinunciatario e passivo di avvicinarsi alla vita, nel segno – così la formula corrente per i personaggi di Svevo – dell’inettitudine.

Fama tardiva è appunto il titolo del racconto lungo dello scrittore viennese, inedito Schnitzler vivente, e presentato per la prima volta al pubblico italiano nel 2015, nella elegante traduzione di Alessandra Iadicicco. “Per tanti anni non era stato che l’impiegato Saxberger”, riflette il protagonista, snidato dal suo guscio di modeste abitudini da un giovane poeta che ha riconosciuto il valore memorabile delle sue Passeggiate, un libretto di quarant’anni prima, “e non aveva nemmeno pensato di essere qualcos’altro. A volte aveva anche passato in rassegna la sua vita di un tempo, anche ai suoi versi giovanili aveva a volte ripensato, come pure ad altre follie di gioventù, ma che sarebbe potuto diventare un poeta lo aveva da tempo dimenticato. Ormai aveva quasi settant’anni. La vita gli era scivolata tra le mani – e neanche per un’ora, nemmeno per un minuto degli ultimi trent’anni, era stata allietata dalla fiera consapevolezza di non appartenere alla schiera degli altri.” Uscito dal suo rifugio di talpa Saxberger assapora per brevi istanti la gioia di una piccola fama, mentre prepara insieme ai suoi nuovi, giovani amici (affettuosamente protettivi con il “vecchio signore”: “lo trattavano come un debuttante cui si deve fare coraggio, con cui si deve essere accondiscendenti”) una serata di poesia che dovrebbe incastonare, come pianeti intorno al Sole, la recita di qualche estratto delle Passeggiate. Per poi ritornare, convinto della vacuità di tutto ciò e infastidito dalla vanità dei giovani confrères (con conseguente, lucida presa di coscienza) alle abitudini di sempre, dentro la sua vita ripiegata, in quella fumosa birreria dove tutti ignorano – e quanto sollievo ne ricava! – il suo passato di poeta: il “focolare che non aveva mai amato, in cui però ritrovava il torpido, dolce agio di un tempo”.

Un letterato che quarant’anni separano dalla sua piccola gloria è anche Mario Samigli, velleitario e infrollito protagonista di Una burla riuscita (scritto nel 1926, e pubblicato su “Solaria” nel 1928), nuova maschera del Brentani di Senilità, l’ “impiegatuccio che gode nei circoli cittadini di una piccola fama letteraria” e incarnazione insieme dello “Schlemhil” (“l’inciampatore per natura” – Ovadia) della tradizione ebraica: “un romanzo ch’egli aveva pubblicato quarant’anni prima si sarebbe potuto considerare morto se a questo mondo sapessero morire anche le cose che non furono mai vive. Scolorito e un po’ indebolito Mario, invece, continuò a vivere per tanti anni di certa vita lemme lemme com’era consentita da un impieguccio che gli dava non molti fastidi e un piccolo reddito. Una tale vita è igienica e si fa ancora più sana se, come avveniva da Mario, è condita da qualche bel sogno. Alla sua età egli continuava a considerarsi destinato alla gloria, non per quello che aveva fatto né per quello che sperava di poter fare, ma così, perché un’inerzia grande, quella stessa che gli impediva ogni ribellione alla sua sorte, lo tratteneva dal faticoso lavoro di distruggere la convinzione che s’era formata nell’animo suo tanti anni prima”. Anch’egli votato alla rinuncia, come Saxberger, sia pure in un racconto, rispetto a quello così sapientemente ingrigito di Schnitzler, più ricco di figuranti, svolte d’intreccio, ironia (di cui Svevo sa apprezzare, ben altrimenti del viennese, la forza liberatoria). Eppure come Fama tardiva abile a snodarsi sulla cruna sottile di un ritratto di artista minato dal fallimento, che lo scrittore austriaco e il triestino certo arricchiscono delle proprie ossessioni e, senza alcun dubbio a proposito di Svevo, della frustrante esperienza di narratore incompreso e rifiutato. Figura del risarcimento Samigli, un personaggio che “attraversava la sua triste vita accompagnato da un sentimento di soddisfazione” troverà un riscatto esistenziale nell’improvvisa ricchezza che corona la burla di cui è stato vittima, secondo lo schema, certo di ascendenza novellistica, che prevede il finale trionfo del beffato (come nella Coscienza, per altro), ritornando poi, appagato, ai suoi quadretti letterari di vita animale; uno svolgimento che pure registra, con un’abile metamorfosi narrativa, quel senso di incredulità che accompagnò, in Svevo, l’ingresso nel Pantheon letterario: “ti ricordi”, gli scrisse Giulio Cesari nell’agosto del 1928, pochi giorni prima della morte, “quando venisti a leggermi la lettera di Larbaud [probabilmente la missiva, traboccante di ammirazione, del 1 gennaio 1925, NdA] e noi pensammo che potesse trattarsi d’una ‘battuta’?” Già, una burla riuscita, appunto.

 

 

Arthur Schnitzler

Fama tardiva

Traduzione italiana

di Alessandra Iadicicco

Guanda, Milano 2015

  1. 167, euro 15,00