“Epochè” di Cervi Kervischer

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di Stefano Crisafulli

 

Quando accade qualcosa di terribile nella società, l’artista diventa essenziale per trasporre in un universo di senso ciò che esula dalla comprensione umana. Così ha fatto il pittore Paolo Cervi Kervischer con la pandemia in atto, nell’ambito della mostra personale, dal titolo ‘Epochè’, curata da Enea Chersicola presso la galleria d’arte triestina Tivarnella Art Consulting, visitabile fino alla fine dell’anno previo appuntamento fino alla fine dell’anno, telefonando al 347 609 1354.

Già dal titolo, si preannuncia il desiderio di mettere tra parentesi ciò che sta accadendo per accedere alla verità delle cose: l’epochè, infatti, è un atteggiamento filosofico, nato in seno alla fenomenologia di Husserl, che cercava di sospendere il giudizio sulla realtà, per farla emergere nella sua essenza. Paolo Cervi ci dice, quasi dantescamente, già all’entrata della galleria: ‘Per me si va nella città dolente’. E infatti subito alla destra di chi entra due ombre verticali (Virgilio e Dante?), entrambe dal titolo eloquente di ‘Desolé’, e un volto stravolto con le orbite vuote ci salutano e ci introducono alle tre sezioni successive, separate da drappi neri. Nella seconda stanza un’opera di grandi dimensioni richiama la ‘Hybris’ dell’umanità, ovvero, in lingua greca, la tracotanza e la dismisura che avevano conseguenze tragiche sul destino individuale e collettivo: qui la suggestione ci porta alla ‘hybris’ tecnologica e industriale, responsabile, per certi versi, della distruzione dell’ecosistema e, quindi, della possibile apparizione del virus. I colori tendenti al biancastro, al grigio metallico, con alcuni elementi rossi, tra i quali un triangolo, e la struttura frammentaria, a lacerti, della tela, mostrano come la ricerca del senso si scontri con un’impossibilità tutta umana: quella di decifrare l’obiettivo di una parte della natura, com’è il coronavirus, che si nutre di un’altra parte della natura, il corpo umano. Ma il senso non c’è, perché la natura non predilige l’uno o l’altro, fa solo il suo corso e poi sta a guardare chi sopravvive meglio.

E di corpi, ce ne sono, in tutte le stanze: più realistici e concreti, corpi nudi di donne dipinte di schiena che osservano il ‘Super futuro’ (come ironicamente dice il titolo) che ci attende, mentre noi osserviamo loro che osservano e ci chiediamo cosa vedono, se vedono qualcosa, o se è solo nebbia quella che ci avvolge tutti, come avvolge anche loro. Gli unici corpi che invece stanno di fronte a noi, hanno il volto indistinto o cancellato e il corpo stesso smagrito e risucchiato da forze simili a quelle che Bacon mostrava nei suoi quadri: forze deformanti, corpi compressi, rinchiusi in gabbie o strutture, imprigionati, insomma. Come i ‘Prigioni’ di Michelangelo, esplicitamente citati in più di un’opera da Paolo Cervi, tanto da emergere sulla tela come fossero dei bassorilievi, bianchi e corposi, catapultati qui da noi dal Rinascimento per avvertirci che siamo imperfetti ma bellissimi, che il non finito è migliore del finito, perché ciò che è finito è già morto e che noi non siamo finiti, ma forse vedremo, più in là, un ‘Aube spirituelle’, un’alba di luce dopo il crepuscolo. Eppure siamo anche noi quei corpi che lottano contro le gabbie, sociali, politiche, naturali, che ci rendono esseri umani pensanti nel caos del cosmo, alla ricerca dell’Aletheia (‘Verità’ in greco) e della salvezza dalla solitudine pandemica. Perché quei volti di donne dell’ultima stanza, persi nei mondi virtuali della tecnocrazia, escano infine dalla notte.

 

Paolo Cervi Kervischer

Prigioni

acrilico su tela

foto Ferdi Crulci photo