LA CITTÀ NEL GOLFO

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Un’altra traduzione italiana per Boris Pahor

di Tatjana Rojc

 

Il romanzo Mesto v zalivu esce, in sloveno, nel 1955. Ha quasi dell’incredibile che un racconto così significativamente triestino veda la sua pubblicazione in italiano a sessant’anni di distanza: La città nel golfo, dunque, finalmente. Era uscita per il centenario dell’autore, in Francia, per il fedele editore De Roux, la versione francese, col suggestivo titolo Ulisse ritorna a Trieste, riscuotendo un successo di critica strepitoso: un libro, si disse allora, davanti al quale bisogna mettersi sull’attenti. Elisabetta Sgarbi non ebbe alcun dubbio, infatti, a pubblicarlo.

Vi è anche in questa prosa pahoriana un intreccio complesso e affascinante di elementi che fanno riferimento da una parte ai grandi narratori italiani, soprattutto, tra i neorealisti, agli amati Silone o Vittorini, una struttura narrativa estremamente peculiare, una scelta lemmatica varia che, specie nei passi descrittivi e nei dialoghi, trova un supporto da un lato di terminologia o espressioni idiomatiche popolari o dialettali che rendono benissimo, inclusi nell’atmosfera di determinati luoghi e determinati dialoghi, ma che, in una lingua diversa, quella italiana, ad esempio, è estremamente difficile rendere. Bisogna saper scivolare bene, come Pahor fa con maestria, tra i vari registri linguistici. E qui trova conferma il grande teorico Jiři Levy che parla, nel caso di traduzione, delle tre fasi fondamentali: la comprensione, l’interpretazione e la ristilizzazione. Necessarria, quest’ultima, affinché le peculiarità di una scrittura possano ben essere apprezzate anche in una lingua diversa dall’originale. Ne La città nel golfo, infatti, l’autore forgia con maestria dialoghi che spaziano da un linguaggio dotto a quello semplice, definito da alcune forme lemmatiche tipicamente proprie del Litorale sloveno (Silone docet, peraltro) che la koiné slovena lubianese, all’epoca, non aveva compreso. O, ancora, certe descrizioni paesaggistiche che, per la loro peculiarità, specie toponomastica ma non solo, ovvia per chi conosce Trieste, ma difficilmente comprensibile per altri, hanno necessitato di alcune note, pur essendo il testo narrativo di per sé abbastanza esplicativo. Così pure certi riferimenti storici che Pahor sapientemente intreccia nel proprio racconto richiedevano di essere chiariti.

Vi è, anche in quest’opera, un intreccio di esperienza vissuta dall’autore sulla propria pelle e di grande lezione di storia, dunque, supportati dalla finzione letteraria che fa di questi pochi giorni, di cui Pahor scrive, a ridosso dell’8 settembre 1943, una sequenza quasi cinematografica da leggere a più livelli. Il punto focale è rappresentato da una specie di diario intimo del protagonista Rudi, posto davanti alla scelta più importante della sua vita: egli osserva se stesso, ma anche il mondo che lo circonda, le persone, ascolta, s’immerge in ciò che gli accade, ma sa immergersi anche in ciò che vivono gli altri, specchi della sua stessa situazione, come quando in altre opere Pahor descrive i compagni di sventura del lager, specchio entro il quale vede se stesso e la propria morte . Così, ne La città nel golfo, nei primi capitoli soprattutto, Rudi, l’alter ego pahoriano, guarda riflessa nei ragazzi che viaggiano con lui, su quel treno che scandisce le stazioni, negli sguardi allucinati, la sua stessa paura, l’incertezza di ciò che verrà, il destino che li accomuna anche se, in quel tragitto, vedono salva la vita: un destino di tutti questi „giovani senza gioventù“ come Pahor ebbe a dire di se stesso e della propria generazione.

Eppure vi sono, in questi pochi giorni che il lettore vive attraverso il racconto come fosse egli stesso a definirsi entro questi pensieri, anche momenti di profondo sentimento, ragionamenti sulla storia, sulla politica, sul libero arbitrio e sulla scelta che la morale o l’etica esistenziale, un imperativo categorico ben definito, impongono a tutti: di opporsi a chi vuole imporre al protagonista, ai suoi amici, a tutta una comunità, di divenire altro da sé. E poi queste straordinarie figure femminili che confermano come, già da questo suo primo testo di ampio respiro, Pahor abbia saputo tracciarne i caratteri in modo straordinario, mai scontato, con dialoghi pregni di ironia, schiettezza, a volte apparentemente superficiali. Facendo accenno a ciò che il fascismo aveva tentato e in parte era riuscito a fare: di instillare un senso di inferiorità quasi come se veramente esistesse un popolo di cimici senza storia e senza nazionalità, insetti da annientare, come aveva detto Mussolini, come avevano scritto allora i giornali di regime. Usa la metafore del mito sloveno della Bella Vida, Boris Pahor, del richiamo verso orizzonti ignoti ma apparentemente più allettanti, tema squisitamente approfondito dal filosofo Evgen Bavčar nella prefazione all’edizione francese: una versione di Ulisse al femminile che, non paga della propria infelicità, insegue il canto delle sirene d’oltremare, dalle quali è definita una cultura che vuole divenire egemone.

Commuove profondamente, nel romanzo, l’intenso, fugace incontro del protagonista con la madre, in cui quest’ultima esprime il desiderio di vederlo andare nei boschi, di unirsi ai partigiani, alla Resistenza, perché i boschi avrebbero saputo proteggerlo, avrebbero saputo salvargli la vita. E vi sono, a mio parere, alcune pagine, rese indimenticabili dalla capacità descrittiva e metaforica che, a sessant’anni di distanza, ci fanno leggere questo testo come fosse stato scritto oggi, apposta per noi, per non farci dimenticare. Commoventi i passi in cui protagonista è la nonna, una vecchina piena di saggezza atavica, descritta con pacato senso di osservazione e rispetto, quasi che l’autore avesse voluto definirla, attraverso le sue rughe e il colore della pelle scurita dal sole, testimone antica dell’archetipo della Madre Terra.

Un intreccio tra il reale, l’irreale e l’onirico, immerso in un paesaggio amato che profuma di questa straordinaria capacità pahoriana di renderlo sublime: il respiro dei pastini, delle vigne, dei cortili d’inizio autunno, con le ombre lunghe e silenti, i profumi e i colori dell’uva matura alla vendemmia. E poi, d’improvviso, l’amore, un sentimento forte, quasi un giuramento che, scriverà Heidegger, succede “tra due persone“, e „accade che talvolta, molto raramente nasca un mondo. Questo mondo è poi la loro patria, era comunque l’unica patria che noi eravamo disposti a riconoscere. Un minuscolo microcosmo, in cui ci si può sempre salvare dal mondo che crolla.“ Questa affermazione heideggeriana viene espressa da Pahor in quello sguardo silenzioso sul tram verso la città, oltrepassato appena da un raggio di luce. La speranza. Per Rudi. Per Majda. Per gli altri personaggi. Per la città nel golfo.

 

 

Boris Pahor, La città nel golfo, Traduzione di Marija Kacin, Bompiani, pp. 304, Euro 19,00