Per caute sopravvivenze

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Un piccolo dizionario

di Malagigio

NIENTE

Data l’inconfutabile legge della Domanda e dell’Offerta, dev’esserci una grande penuria di niente per giustificare certi prezzi. Cominciavo dal caso più modesto: lo scultore Salvatore Garau ha venduto la statua “IO SONO” per 15 mila euro. La statua è fatta di ottimo niente, e per lei è stato predisposto uno spazio adeguato e la giusta illuminazione. Leggiamo su “askanews” che «l’opera è stata realizzata grazie al sostegno dell’Istituto Italiano di Cultura di New York»: senza quel sostegno, non dubitiamo che l’opera sarebbe rimasta impossibile, a languire sulla Luna di Ariosto. Sarà facile notare che Salvatore Garau è un manierista, un epigono: il niente fa da materia dell’arte contemporanea da molto tempo. Il compositore americano John Cage è diventato un classico soprattutto per il brano 4’33’’, che è stato composto+ tra il 1947 e il 1948, in cui il pianista non suona nulla. Il brano è stato trascritto per varie combinazioni di strumenti: ci si può deliziare su YouTube con una storica versione della Filarmonica di Berlino.

Ma il peso dell’arte nel mondo che ci è dato vivere sappiamo quanto sia ahimè marginale. Un niente molto più esoso è costato finora agli italiani 960 milioni di euro: con quella cifra si sarebbe potuto arredare le case di tutti con preziose sculture di niente e molte storiche interpretazioni di 4’33’’. 960 milioni è la cifra calcolata dalla Corte dei Conti, massima esperta nazionale del valore degli innumerevoli niente nazionali, per quantificare il costo del ponte sullo stretto di Messina. Non si capisce perché a questo punto non si dice che esiste già, che funziona benissimo e che, a differenza di altri sfortunati ponti, non crollerà mai: un ponte a prova di bomba. Gli italiani pagano quei 960 milioni in comode rate dal 1981. Festeggiamo questo quarantennale. A codesto niente corrispondono accurate voci di bilancio, per qualcosa che non è un ponte ma uno stato d’animo: la merce più richiesta tra i popoli ricchi del XXI secolo.

PARADISO

Quando la Kodak fece la sua prima pellicola a colori, commissionò un sondaggio in cui chiese agli americani quale fosse per loro il colore del paradiso: risposero in coro arancione. Così quell’industria decise che le tinte dominanti delle sue pellicole sarebbero state nella banda tra il giallo e il rosso. Per questo, nelle foto di tutto il mondo, quasi sempre senza sapere perché, tutti si accorsero che venivano bene le fragole, i limoni, i tramonti e le maglie della Roma. Chissà se anche per noi italiani il paradiso è arancione: a vedere le pubblicità del Mulino Bianco e della Barilla parrebbe di sì. L’attrice Diane Keaton nel 1987 fece un documentario intitolato Heaven in cui vediamo interviste, sempre solo ad americani, su come immaginassero sempre il paradiso. Gli americani pare siano tutti o quasi molto credenti: per non dimenticarselo lo hanno anche stampato sul dollaro. Interessante, nel documentario della Keaton, che già il primo intervistato, alla domanda su come immaginasse il Regno dei Cieli, per un minuto buono si espresse solo con degli enigmatici, o oracolari, uhm a ehm… Al pur ricchissimo inglese manca ancora la parola Boh: ci arriveranno. Del resto tutti gli intervistati parlarono per sentito dire.

A riempire la lacuna potrebbe aiutarci la molto più recente intervista a una ex playmate (modella per Playboy) in cui ci racconta con molta nostalgia com’era il vero paradiso, perché lei c’era stata: aveva vissuto per un intero anno alla Bunny House (in italiano: la casa del coniglio): «cinema, animali, trampolini, stilisti». Affascina subito l’idea di un paradiso pieno di trampolini.

La ragazza smentisce senza appello l’accusa che in quella villa faraonica si facessero cose selvagge (wild), perché erano «molto più selvagge» di quanto l’atrofizzata fantasia di noi esclusi possa immaginare. Oltre il sesso e i trampolini, nella paradisiaca Playboy Mansion c’era soprattutto un paradisiaco telefono, il Dial-a-Dream, con un numero solo: lo zero. Serviva per chiedere qualunque cosa si volesse a qualunque ora del giorno e della notte. E la nostra testimone ricorda come madeleines proustiane le patatine fritte portate da angeli discreti alle tre di notte da McDonald’s. Vuoi mettere col paradiso para-universitario, con tanto di interrogazioni ed esami, di Dante…

PATATA

Si narra che, quando la patata arrivò dall’America, dopo aver nutrito per secoli gli sfortunati indigeni del Nuovo Continente, venne accolta malissimo. Ci furono trasversali e potentissimi movimenti No-Pat, che avevano ovviamente le loro ragioni: il tubero si presentava bruttissimo, certo non la linda e liscia patata che troviamo adesso nei supermercati. La patata era pieno di viluppi, era marrone e – cosa pessima – cresceva sottoterra. A vederla così, come natura l’aveva fatta, insomma, pareva troppo simile allo sterco. I movimenti No-Pat sostenevano che nulla garantisse che non fosse un alimento del demonio, che non era un caso che non fosse mai nominata nella Bibbia, e chissà quali malattie avrebbe potuto portare. Né fu ritenuto sufficiente che per un paio di secoli – dal Cinquecento al Settecento – la patata fosse stata data ai maiali, senza che questi fossero diventati meno maiali per questo. Gli uomini, dicevano ottimisticamente i No-Pat, non sono maiali, e infatti non mangiano ghiande (il che non era poi verissimo). I movimenti No-Pat erano talmente potenti che, in Francia, nel 1748, era stato approvato un decreto che vietava la patata in quanto portatrice certo di malattie terribili: per esempio la lebbra. L’idea si basava su un’evidenza inconfutabile: le dita delle mani dei lebbrosi sembravano proprio cinque patate. Eroicamente, i No-Pat, cioè quasi tutti, sopportarono diverse carestie, che fecero morire molte persone, piuttosto che assaggiare un piatto di patatine fritte. Morivano gli uomini, sopravvivevano i maiali.

Fortuna volle che il dottor Antoine Augustin Parmentier (1737 – 1813) venisse fatto prigioniero dai prussiani nella guerra dei sette anni. Non essendo ancora in vigore la Convenzione di Ginevra, i prigionieri venivano trattati malissimo, e malissimo nutriti. Parmentier sopravvisse, nutrendosi da solo con le sue disprezzatissime patate. La notizia arrivo al re Federico II, quel re illuminato che andava d’accordo a giorni alterni con Voltaire. La patata si fece almeno prussiana.

Quando Parmentier tornò libero in Francia, sentì come una missione convincere anche il suo paese alle patatine fritte. I movimenti No-Pat ancora imperversavano. Si escogitò allora, dopo la terribile carestia del 1785, un trucco: nelle terre del re, pare a Parigi dalle parti del Campo di Marte, fu seminato un grande campo a patate. Il re ordinò che vanisse ostentatamente sorvegliato dall’alba al tramonto dalle sue guardie. Cosa nascondeva il re di così prezioso e segreto?, si chiesero i contadini, che pensarono bene di approfittare della notte per rubare un po’ di piante e coltivarle clandestinamente. Come la cocaina, la patata da allora si diffuse rapidamente. I movimenti No-Pat svanirono senza neppure accorgersene.