Scandalosa Rive Gauche

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Una storia così collettiva e sbalorditiva è davvero difficile da imbastire. Ma ora che l’abbiamo, a firma di Agnès Poirier, possiamo solo applaudirla

di Gabriella Ziani

 

Gli avversari politici li chiamavano “trogloditi”. Di Jean-Paul Sartre dicendo che era sporco di fuori e di dentro. Sprezzavano la sua compagna Simone de Beauvoir, “Notre dame de Sartre”, come ninfomane e lesbica. I due, per dirla chiara, se ne fregavano, masticavano più scandali che pane. Si erano dati una nuova regola, quella di essere sregolati, e ci riuscivano benissimo. Nulla era tiepido o banale attorno a loro, sopravvissuti alla guerra e all’occupazione nazista e decisi a dare una nuova forma al mondo. Parigi si era risvegliata povera, gelida, grigia, buia e stanca. E, come tutta la Francia, era politicamente dilaniata tra il neonato gollismo, l’egemonia dei comunisti che faceva da perno, gli imbarazzi per la brutta pagina del governo filo-tedesco di Vichy, e una ricerca, faticosa e infruttuosa, di una “terza via” (ci provò proprio Sartre, anche mettendo in piedi un partito che ebbe poche ore di vita). Lui rilanciò e s’intestò l’idea filosofica di esistenzialismo, basata sul marxismo, e divenne celebre assai presto, anche come fondatore e direttore della rivista Les temps modernes e pubblicando Le mani sporche, Le mosche, La Nausea. Lei, autrice di Per una morale dell’ambiguità, L’invitata, Il sangue degli altri, alla fine degli anni Quaranta mise sottosopra Europa e America con Il secondo sesso, primo e dirompente manifesto femminista.

Vivevano, appollaiati in stanzette d’albergo, sulla riva sinistra della Senna, nel quartiere tra Notre Dame, i giardini de Luxembourg e la Sorbona, e il Louvre sull’altra sponda. Ed è lì, sulla quella Rive Gauche, che prende forma il quartiere dei talenti, è lì la mappa del mito. Tra la fine del conflitto e gli anni Cinquanta divenne l’angolo più creativo e trasgressivo, una faglia di rottura e rigenerazione rimasta intatta nella sua fama avendo prodotto capolavori in ogni campo e cambiamenti indelebili. Place Saint-Germain-des Prés, rue Bonaparte, Boulevard de Montparnasse, rue de Montalembert, Café de Flore, brasserie Lipp, hotel La Louisiane, ristorante Le Deux Magots, o Le Tabou di rue Dauphine, eccentrico “covo” di musica e bevute: tutti dei sancta sanctorum della storia e dell’immaginario.

Per quelle strade circolavano l’espatriato algerino Albert Camus, direttore di Combat e futuro autore dei romanzi La peste e Lo straniero, i filosofi Maurice Merleau-Ponty e Michel Leiris, il tormentato Arthur Koestler, l’ancora triste e povero Samuel Beckett scappato dall’Irlanda, che solo più tardi sfonderà con Aspettando Godot, l’eccentrica Marguerite Duras, Pablo Picasso, Sebastian Matta, André Breton, Alberto Giacometti, Constantin Brancusi, Georges Braque, Fernand Léger, Henri Matisse, e poi Jean Cocteau, Raymond Queneau, François Mauriac, Jacques Prévert, Jean Genet, Louis-Ferdinand Céline, Henry Cartier-Bresson. E in arrivo dagli Stati Uniti, come falene attirate da tanta tenebrosa luce, spesso foraggiati dal governo Usa che regalava ai reduci di guerra viaggio, soggiorno e corsi di francese, fra tanti altri anche Saul Bellow, Norman Mailer, Richard Wright, James Baldwin, e – per conto proprio – Alexander Calder coi suoi mobiles. Fra loro si aggirava inquieta Dominque Aury, che nel 1954 con lo pseudonimo di Pauline Reage pubblicò lo scandaloso Histoire d’O. Per la passione programmatica del nuovo, grazie a Boris Vian, ingegnere di giorno, musicista di notte e scrittore negli intervalli, ma soprattutto in virtù dei gloriosi viaggi in America della coppia che dettava legge, la riva sinistra lanciò in Europa jazz e be-bop, dando un palco in scuri sottoscala a Duke Ellington e Miles Davis, mentre il cinema (Truffaut) metteva nuovi promettenti rami. Nasceva lì, molto per caso, anche la stella di Juliette Greco, attrice mancata, ragazza squattrinata, a cui proprio Sartre donò una propria canzone per il temerario debutto.

Basta far due conti, e si trovano quattro futuri premi Nobel, Sartre, Camus, Beckett e Bellow, mentre il quinto, Ernest Hemingway, si era palesato in divisa tra le forze anglo-americane entrate a liberare la Francia e, passando con la sua divisione dalla Port d’Orleans a rue de l’Odeon, era riuscito, pur nel caos di quei momenti, a riabbracciare le libraie Sylvia Beach (editrice nel ’22 dell’Ulisse di Joyce con la sua Shakespeare and Company) e Adrienne Monnier, e a consegnare a Picasso una cassa di bombe a mano, in rue des Grands-Augustins.

Una storia così collettiva e sbalorditiva è davvero difficile da imbastire. Ma ora che l’abbiamo, a firma di Agnès Poirier con Rive gauche. Arte, passione e rinascita a Parigi 1940-1950, possiamo solo applaudirla. Con meticolosa penna leggera la Poirier cuce assieme senza alcuna smagliatura di montaggio la politica francese, europea e mondiale, le biografie di così tanti personaggi spiati nel loro destino pubblico e privato, la creazione e gestione di riviste, l’editoria, l’arte (da non perdere l’avventuroso salvataggio dei quadri e in particolare della leonardesca Monna Lisa da parte dell’illuminato e coraggioso direttore del Louvre, Jacques Jaujard), la gestazione e il destino di libri intramontabili, gli intrecci felici, balordi, e talvolta drammatici delle coppie e il ruolo delle donne, il senso dell’esistenzialismo che inaugurava la stagione dell’engagement, dell’impegno individuale, le furenti polemiche sul comunismo e l’essere di sinistra ma non comunisti, i rapporti con la Russia stalinista e le imbarazzanti notizie sui gulag, e con l’America consumistica che però lanciava in Europa il salvifico piano Marshall, e poi i viaggi (anche in Italia per conoscere Elio Vittorini e il nostro più quieto Pci): il tutto scorre fluido, integro, dettagliato e vivace, e ci trasloca nei gruppi, nelle stanze, in case, cantine, caffè, redazioni, strade, a Parigi come a New York e a Londra, a contatto diretto con questa impressionante platea di dissacrante forza intellettuale e umana.

Lo stile l’avevano dato i due con le spalle più forti, Sartre e de Beauvoir. Vivevano separati, in alberghetti. Niente casa, convivenza, matrimonio o figli: era borghesissimo. Scrive Poirier: «Lavoravano tanto, si divertivano tanto, avevano una disciplina ferrea: scrivevano quattordici ore al giorno, uscivano tutte le sere, coltivavano una grande famiglia di amanti e amici fidati, vivevano in camere d’albergo senza i problemi della vita domestica e spendevano ogni singolo centesimo che guadagnavano – non era questo il solo, e autenticamente rivoluzionario, modo di vivere per uno scrittore?». Altri, affascinati, sospettarono che solo in una stanza d’albergo potesse nascere un capolavoro, e se la procurarono, rigorosamente sulla riva sinistra, essendo quella destra in mano a ricchi e benpensanti. Se avevano famiglia (come Camus, che la sopportava poco o niente, o l’americano Wright, fedelissimo), trovarono comunque – mimetici anche in questo – un amoretto secondario o, come lo stesso Camus, primario. La moglie Nancine, che aveva pregato almeno figli ed erano nati due gemelli, perse la salute. Così come la vittima del cupo Koestler, la dolce Mamaine Paget, segretaria e tuttofare, che si spostava con lui da Londra a Parigi e viceversa, e si lasciava maltrattare e perfino picchiare supplicando un matrimonio, e ammalandosi. A volte succedeva il contrario, erano i francesi a trovare nuovi amori oltreoceano. Capitò a Sartre (che a Parigi cambiava più partner che calzini). Dopo lo sfolgorante giro di conferenze cui era stato invitato dal suo editore americano, incontrò Dolorès Vanetti, che non si rassegnò mai al ruolo di geisha a tempo. Capitò a de Beauvoir, che già a casa faceva entrare nel letto questi e quelli, e anche sue ex allieve: fece il lungo tour americano in compagnia dello scrittore Nelson Algren, che rimase l’innamorato aggiunto. «Essere una donna, perfino nella Parigi liberata, era una difficoltà congenita – leggiamo –. La più libera fra le donne, Simone de Beauvoir, che pur educata da donna viveva da uomo, stava ancora indagando sulla questione». Era il patto dell’amore aperto che i due si erano dati, e forse erano anche gli unici in grado di reggerlo.

Del resto, reggevano tutto. Les temps modernes era una lama di interventi politici e novità letterarie captate al volo, Combat (diretta dal fiero anticomunista Camus) li sbranava ma non si voltavano indietro. La sera, in buona compagnia, discutevano nei bistrot o nel retro tranquillo e buio degli alberghi preferiti e bevevano fino a stordirsi. «Beauvoir – scrive l’autrice – non era la sola a mescolare alcol, tabacco, sonniferi e anfetamine ogni giorno, anche Sartre assumeva droghe», e non era l’unico nella zona. Sartre sgranocchiava fino a quattro pastiglie di eccitanti (sostanze usate dai résistant durante la guerra, che ancora si compravano al banco, e che oggi in parte sono proibite), fumava due pacchetti di Boyards senza filtro al giorno «e ingoiava litri di caffè e tè. La notte beveva di solito mezza bottiglia di whisky prima di prendere quattro o cinque pillole di sonnifero per poi andare fuori combattimento».

Buoni o cattivi, li presero per maestri. Lo constatò sempre Simone, in una lettera ad Algren: «Le cantine esistenzialiste sono un successo straordinario. Il buffo è che sono appena due isolati – Saint-Germain-des-Prés è tutto lì ma in quei due isolati non si trova un posto a sedere, nei bar, nei café, nei night e neppure sul marciapiede. Mentre tutto intorno c’è solo oscurità e morte».

Era stato Sartre a dirle un giorno: «Perché non scrivi qualcosa sulle donne?». Chissà a che cosa pensava, il filosofo che pagava fior di soldi alle donnine sue e di altri per gli aborti clandestini praticati da uno dei fratelli di Boris Vian. Simone si mise a intervistare le proprie conoscenze, poi andò in biblioteca, e scoprì molte cose. Il secondo sesso uscì nel 1949 da Gallimard, e fu scandalo internazionale perché si citavano bello e chiaro gli organi genitali e l’aborto. Il rivoluzionario concetto complessivo, ricavato da biologia, storia, mitologia e psicoanalisi, era che la donna era sempre stata “oggetto inferiore”, che il “femminile” non era di nascita ma di educazione e condizionamento sociale, e che soltanto lavoro e indipendenza economica avrebbero dotato “lei” della spettante porzione di autonomia e libertà. Nel 1959 si entusiasmò per Brigitte Bardot: «Il maschio è per lei un oggetto, proprio come lei è un oggetto per lui […]. Il desiderio e il piacere le sembrano più veri delle norme e delle convenzioni». Dunque, promossa. Assieme alla spericolata Françoise Sagan (Bonjour tristesse del 1954: ennesimo scandalo), sarà considerata l’erede virtuale della prima generazione di “esistenzialisti”.

«Per me – dice Poirier nell’introduzione/commento – scrivere questa storia è stato […] come entrare in una casa in fiamme. Il fuoco vivo della guerra, la fornace delle emozioni, la passione della politica, le liti spettacolari, il sesso brutale, le frustrazioni snervanti, gli ideali pazzi e belli, la progettazione di grandi strategie – tanti fallimenti e alcuni eccezionali successi». Chapeau, madame. Quando discutiamo di come raccontare o divulgare la storia, dobbiamo ricordarci di questo stile.

 

 

 

Agnès Poirier

Rive Gauche

Arte, passione

e rinascita a Parigi 1940-1950

Traduzione di Andrea Sirotti

Torino, Einaudi, 2021

  1. 351, euro 21,00