Il Premio Strega Giovani offre salvezza

Una giuria di ragazzi e ragazze tra i sedici e i diciotto anni ha proclamato vincitore il secondo romanzo di Daniele Mencarelli

di Anna Calonico

 

Santa Medicina, ti prego custodiscimi e governami, fammi diventare normale, fammi meritare la mia casa. Amen.

 

Quella del 2020 è la settima edizione del Premio Strega Giovani che elegge, tra i dodici semifinalisti dello Strega, il libro più votato da una giuria di ragazzi e ragazze tra i sedici e i diciotto anni che, con 64 preferenze su 344 espresse, ha proclamato vincitore Tutto chiede salvezza di Daniele Mencarelli.

Si tratta del suo secondo romanzo, dopo La casa degli sguardi pubblicato nel 2018, ma l’autore ha al suo attivo anche libri di poesie. È autobiografico, scritto in prima persona, e parla dei sette giorni di TSO vissuti dall’autore all’età di vent’anni. Naturale che sia piaciuto (anche) ai ragazzi: è un libro forte e reale, e il romanesco parlato da alcuni personaggi aiuta a renderlo ancora più veritiero. È come essere sbattuti all’improvviso in un inferno che si pensa possa capitare soltanto ad altri, lontani da noi, ma è anche pieno di tanta delicatezza, e questo mix lo rende irresistibile, tanto che, iniziata la lettura, non lo si lascia più sino alla fine.

Daniele si presenta come un ragazzo molto sensibile: «In estrema sintesi mi sembra che la vita mi pesi più che agli altri. Ma non solo in senso negativo, anche sulle cose belle, mi sembra tutto gigantesco» (p.70), ma molto turbato: «Da quando sono nato non ho fatto altro che portare disordine, un’esagerazione dietro l’altra, tutto un impulso da seguire, nel bene come nel male. Non so vivere in un altro modo, non riesco a sfuggire a questa ferocia: se c’è una vetta la devo raggiungere, se c’è un abisso lo devo toccare» p.13). È una personalità incompresa che si strugge di dolore: «Quale malattia mi fa chiedere salvezza? Quale educazione mi fa implorare pietà? Fa’ che il mio sia solo uno scompenso della chimica, datemi tutta la chimica del mondo, ma chiudetemi gli occhi, il cuore, perché non ce la faccio più a soffrire così per quello che vedo, sento» (p. 35), non riesce a vedere il dolore degli altri senza sentirlo nel profondo, e questo gli fa provare una grande empatia e un senso di amorevole accettazione di tutti.

Oltre a lui, tra le pagine ci sono i suoi compagni di stanza: Madonnina, il povero Madonnina, e Alessandro, il ragazzo catatonico, personaggi silenziosi ma ben presenti nei ricordi dell’autore («lo guardo e mi sembra che tutto di lui chieda aiuto» p. 14), e i tre magnifici esemplari di umanità che con Daniele formano la combriccola di pazzi alle prese con medici e infermieri. Gianluca, con i suoi urletti da donna, è in qualche modo il collante del gruppo, appare un pochino come uno stereotipo, dolce e ridicolo insieme, e leggendo di lui sembra quasi di vedere un film di Verdone; poi c’è Giorgio, che ci regala un paio di pagine molto intense sulla cognizione del dolore, e non soltanto quello segnato sulle braccia in forma di cicatrici ancora sanguinolente: «perché il dolore costa fatica, ho vent’anni ma ho sofferto per mille, rimanendo sempre uguale a me stesso: un bambino, come Giorgio, di fronte ad un dolore che non puoi conoscere né addomesticare» (p.50).

E soprattutto c’è Mario, il mio preferito, il sosia del chitarrista dei Queen, il professore che sembra tanto docile eppure è l’unico pericoloso, l’anziano che non si scosta dalla finestra e passa le giornate a guardare il nido di uccellini sull’albero di fronte e a meditare sul senso della malattia e degli ospedali psichiatrici: molto belle le sue riflessioni sul punto di partenza della scienza, sulla differenza tra curare e depurare, sugli uomini vivi, come definisce quelli che si interrogano sulla vita.

La lettura corre veloce, e ci troviamo veramente a dare ragione ai matti, perché come si può non farsi travolgere dall’emozione proibita di una pizza per asporto in reparto? E poi, naturalmente, è impossibile non intenerirsi con immagini come questa: «La gratitudine che Mario sa restituirmi dovrebbero vederla almeno una volta nella vita tutti gli esseri umani esistenti. Come un’opera d’arte, o un capolavoro della natura» (p.170). Chi mai ha parlato con tanta delicatezza degli ultimi, dei reietti, dei nascosti in manicomio? Per forza, una volta giunti alla fine, a quel tragico, insospettabile epilogo, concordiamo con Daniele sulla sua definizione di amicizia e di fratellanza, e sulla sua condanna a quella che viene definita “normalità” o “salute mentale” e che altro non è se non abbruttimento: «Non aprirsi mai alla pietà, svuotare l’uomo sino a farlo diventare un ingranaggio di carne. Sentirsi padroni di tutte le risposte. […] La vera pazzia è non cedere mai. Non inginocchiarsi mai» (p.198).

È un libro che colpisce come un pugno, e mentre ci fa vedere la sofferenza della vita attraverso gli occhi di Daniele, mette in mostra emozioni autentiche e ci commuove con semplicità e malinconia, usando rispetto ed empatia. Le sue parole raccontano una storia piena di amore e angoscia: «Come fai ad affrontare la morte di chi ami? Se è tutto senza senso non lo accetto, allora vojo morì!» (p.25), ci presenta la nascita di un’amicizia tra persone simili, molto più simili di quanto possano sembrare ad una prima occhiata, molto più di quanto possano pensare loro stessi prima di accorgersi che soltanto in quella stanza, per la prima volta nella loro vita, riescono ad essere veramente se stessi senza doversi mai mostrare migliori di quello che sono, e senza timore di venir giudicati condividono paure, ricordi, sogni, rimpianti.

Forse si sente troppo il senso di ribellione degli anni giovanili («Vivrò da infelice, prima o poi il dolore avrà la meglio, ma non siete voi quello che voglio diventare» p.198), ma questo libro ha il pregio notevole di parlare di salute mentale e di cure psichiatriche. Di più: ha il vantaggio di essere stato scritto da chi è stato curato, da un “ex matto”.

Si può guarire, quindi, dalla malattia mentale? Ottima domanda, e se gli adolescenti hanno voluto votare questo libro significa che se la sono posta e, probabilmente, sono andati ad informarsi o perlomeno ne hanno parlato tra di loro o anche con qualche adulto. La vittoria di Tutto chiede salvezza allo Strega Giovani mi pare un buon auspicio per il nostro futuro, senza dimenticare che, nonostante il senso penoso di fallimento finale, in realtà questo libro offre speranza: in fin dei conti, termina con la vittoria di chi riesce a superare quella settimana di trattamento sanitario obbligatorio. Daniele, infatti, riesce a salvarsi, grazie a quei compagni di prigionia a cui dedica insistentemente il suo lavoro, all’inizio Ai lottatori, ai pazzi, alla fine Per i vivi e per i morti, salvezza. Salvezza per Mario, Gianluca, Giorgio, Alessandro, Madonnina. Per i pazzi, di tutti i tempi, ingoiati dai manicomi della storia, e all’assegnazione del premio: Lo dedico a chiunque si trovi in un tso in questo momento.