Ad Assisi un manifesto per la convivenza
Fabiana Martini | giornalismo | Il Ponte rosso N° 28 | ottobre 2017
Perché la paura e il disagio sociale hanno a che fare con una cattiva informazione
di Fabiana Martini
Cinquantacinque anni fa – l’11 ottobre 1962 – una carezza via etere annunciava al mondo l’avvio di un’autentica rivoluzione: la Chiesa si poneva in dialogo con l’umanità nella consapevolezza, poi messa nero su bianco nella Gaudium et Spes, che nulla di ciò che è umano poteva esserle estraneo e che le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce degli uomini d’oggi, dei poveri soprattutto, erano le stesse dei cristiani; scendeva dal piedistallo nella consapevolezza di dover imparare a condividere la quotidianità della gente, riconoscendo ciò che di buono vi è nel dinamismo sociale odierno. Nel celebre discorso alla Luna pronunciato in apertura del Concilio, Giovanni XXIII esortava proprio a «cogliere quello che ci unisce» e a «lasciar da parte – se c’è – quello che ci può tenere un po’ in difficoltà».
Che poi è lo spirito che ha animato i Costituenti e al quale si sono rifatti i fondatori di “Articolo 21” (www.articolo21.org), un’associazione nata 15 anni fa, precisamente il 27 febbraio 2002 (dal maggio di quest’anno con un presidio anche in Friuli Venezia Giulia), che riunisce esponenti del mondo della comunicazione, della cultura e dello spettacolo che si propongono di promuovere il principio della libertà di manifestazione del pensiero, ma anche di essere “rete delle reti”, mettendo in comunicazione le varie esperienze affini per sensibilità e temi trattati. Unire, cercare, creare convergenze sono gli obiettivi che questa realtà dedicata al dovere di informare e al diritto di essere informati si pone e che sono stati ribaditi con forza nell’assemblea nazionale di Assisi a fine settembre: «l’identità» ha detto Beppe Giulietti, già portavoce dell’associazione e ora presidente nazionale della Federazione della stampa, «va usata per trovare punti di convergenza tra le differenze», per unire non per dividere.
Che poi è lo spirito che ha animato Francesco nella sua rivoluzione, come ha ricordato padre Enzo Fortunato, direttore della Sala Stampa del sacro Convento di Assisi: una rivoluzione dei luoghi (dalle chiese alle piazze), del linguaggio (popolare e luminoso), dei gesti (è la vita che parla a tutti e con tutti).
Che poi è lo spirito di papa Francesco, che non si è scelto un nome a caso, che con un “buonasera” è in grado di rivolgersi davvero a tutti e a tutte e attraverso un paio di scarpe riesce a mandare un messaggio più potente di cento encicliche, che nessuno leggerà mai.
E non dovrebbe essere anche lo stile del lavoro giornalistico? Costruire ponti, creare connessioni, dare voce a chi non ce l’ha, farsi capire da tutti, illuminare le zone buie e dimenticate. A volte, girando sul web o scorrendo qualche titolo, sembra che il senso di questa professione fondamentale per la democrazia, perché senza informazione non c’è democrazia, sia andato smarrendosi: che si faccia a gara a chi arriva prima, non a chi racconta meglio; che l’unica preoccupazione sia vendere o conquistare click anche a scapito della verità; che oscurare il bene e sancire il silenzio su certe questioni o su certi angoli della Terra (l’Africa ad esempio) non sia una responsabilità del giornalista. È per questo che ogni tanto bisogna riaffermare certi principi, e non farlo solo dentro la categoria, ma impegnandosi pubblicamente. Perché solo unendo le forze, promuovendo sensibilizzazione, sintonizzando il vocabolario, si può sperare di abbattere i muri dell’ignoranza e di ricostruire le evidenze etiche comuni: questo l’intento degli oltre duecento giornalisti che hanno sottoscritto il Manifesto di Assisi (https://www.articolo21.org/2017/09/il-decalogo-di-assisi-contro-i-muri-mediatici/ ), un decalogo nato in collaborazione tra Articolo 21 e la rivista San Francesco (www.sanfrancesco.org ) sulle buone pratiche della comunicazione. Per contrastare la violenza verbale e scritta, soprattutto sui social media, ma anche e soprattutto per imparare a dire «una parola buona», come auspicava Giovanni XXIII la sera dell’11 ottobre di 55 anni fa. Quella carezza che asciuga le lacrime, specialmente nelle ore della tristezza e dell’amarezza, e di cui anche e specialmente oggi c’è tanto bisogno. Non solo da parte dei giornalisti.