Addio a Patrizia Vascotto

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Una vita per costruire ponti e abbattere muri

di Roberto Dedenaro

 

Una delle preoccupazioni di Patrizia Vascotto era, negli ultimi tempi, che nessuno seguitasse il suo lavoro, che le tante iniziative da lei seguite e organizzate, venissero a cadere.

Quando una persona viene a mancare, perdiamo qualcosa di insostituibile e nessun altro, ovviamente, potrà mai restituire ciò che manca, le capacità e i difetti che rendono ogni individuo unico, ma le idee su cui uno si è mosso, gli obiettivi da raggiungere, la direzione intrapresa quello rimane e sta a chi è rimasto, a noi insomma, la capacità di continuare quel lavoro.

Per una curiosa casualità conoscevo Patrizia dall’infanzia, abitavamo entrambi nel rione di Rojano e abbiamo frequentato le stesse scuole elementari e medie inferiori e superiori e la stessa facoltà universitaria. Era una bravissima studentessa, in ogni ordine di scuola e sin da adolescente aveva manifestato una inclinazione, quasi naturale, per lo studio delle lingue. Io sfruttavo questi suoi interessi e mi facevo tradurre i testi delle mie canzoni preferite dall’inglese, volevo capirne appieno il “messaggio” e lei si prestava volentieri a soddisfare le mie curiosità. I nostri genitori non erano troppo comprensivi delle nostre inquietudini: il ’68 era passato, ma avevamo troppa voglia di conoscere il mondo e di stare dalla parte del cambiamento. Mal si adattava alle limitazioni e agli orari che i genitori le imponevano e curiosa di tutto smaniava alla ricerca di una libertà d’azione alimentata in egual modo dalla voglia di conoscere e da una personalità forte, che aveva un bisogno quasi fisico di emergere. A Trieste negli stessi anni si respirava aria pesante, il Trattato di Osimo, le polemiche sul bilinguismo da un lato ma anche le nostalgie del passato, creavano un ambiente chiuso, in cui l’unica ipotesi di compresenza fra componenti e culture diverse sembrava essere quella della separatezza. Una città piena di rancori, aggrappata al suo passato, lontana dall’Italia e dall’Europa. Una città che sembrava priva di futuro nella contemporaneità, nella modernità che la nostra generazione, cresciuta al suono della musica rock anglofona sentiva di volere. Il gruppo 85, fondato da Pavle Merkù, Stelio Spadaro, Fulvio Tomizza e altri intellettuali, sembrò produrre il giusto tonfo nell’acqua dello stagno. Avevamo bisogno di buoni maestri e nuove idee e il gruppo, forse, ce li offriva. Per Patrizia, credo che la frequentazione di Fulvio Tomizza, in particolare, sia stata un momento molto importante del suo percorso: una parte della sua famiglia veniva dall’Istria e poterla, anche attraverso gli scritti e il lavoro tomizziano, rivivere e riconoscere non come rancore e divisione, credo sia stato un ricongiungimento importante con una parte di sé. A Tomizza Patrizia ha dedicato una buona parte del suo impegno, con l’organizzazione della parte triestina del Forum a lui dedicato e la realizzazione di molteplici percorsi, fra letteratura storia e arte, tratti dai suoi romanzi, lavoro poi sfociato in un volume scritto a quattro mani con l’amica Stella Rasman.

Patrizia Vascotto possedeva una capacità di lavoro veramente notevole, era impegnata come insegnante d’italiano nelle scuole medie superiori di Trieste, faceva la lettrice di lingua italiana all’università di Lubiana, per molti anni è stata presidentessa del Gruppo 85 ed era anche accompagnatrice turistica, sempre animata da una profonda vitalità, coglieva l’aspetto positivo della vita e tutta la problematicità che ogni esperienza umana porta con sé veniva diluita con il fare, con l’amicizia, con la curiosità per il mondo. Credo che la sua passione per le lingue, accompagnata ad un vero talento per impararle, naturalmente, nascesse dal fastidio di sentirsi emarginata, non compresa e di non poter comunicare, fosse fra i cittadini di lingua slovena di Opicina, o durante le vacanze estive nell’amatissima Grecia, terra che conosceva molto bene e che aveva percorso in lungo e in largo.

La Trieste degli anni ’80, la cultura della separatezza, il ripiegamento nostalgico, seppure esistano, sono, ritengo, tratti minoritari della cultura cittadina, la caduta del muro di Berlino, la fine della Yugoslavia e la terribile guerra Balcanica, l’Unione Europea, il passare delle generazioni, hanno creato una nuova mentalità con cui anche la destra politica che ha governato a lungo la città e la regione, hanno dovuto accordarsi; Trieste in queste belle giornate di primavera è piena di visitatori e di turisti di passaggio, lo sloveno, come titolava Il Piccolo nel giorno delle esequie di Patrizia, è una delle seconde lingue che sarà possibile studiare a scuola dal prossimo anno scolastico. Certo molto resta da fare, come si usa dire, ma a questi grandi cambiamenti, al futuro della città, ha dato anche un rilevante contributo quel gruppo di intellettuali e operatori culturali che dagli anni Ottanta, appunto, hanno caparbiamente parlato di convivenza, di multiculturalità di città plurale, fra cui Patrizia Vascotto, il cui lavoro non sarà dimenticato, né andrà perduto, perché è qui con noi è nel futuro di questa città, se saprà o potrà continuare a costruirsene uno.