Altri profughi

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di Patrizia Rigoni

 

Che bellezza il teatro! Quel teatro che in meno di un’ora, con sette sedie in scena, quattro attori e due luci, riesce a portarti dentro le piaghe della storia, dentro il tema della verità e della menzogna della parola.

Un’ora di concentrazione e di tensione, per ricordarci che cosa era il Centro di raccolta di Padriciano sull’altopiano di Trieste.

Un luogo indagato con puntualità di dati e di informazioni da Pietro Spirito in questa sua opera Tempo d’attesa, scritta a due mani con Elke Burkul, presentata nella rassegna di Teatro a leggio della Contrada, in cui il protagonista, dal nome non casuale Krystof (un universale povero cristo) fotografo intellettuale e dissidente, fugge con la moglie dalla Cecoslovacchia invasa dai sovietici.

Spirito è un attento storico, non nuovo a svelare luoghi sepolti dalla memoria collettiva. Tempo d’attesa è un bel congegno di rivelazioni intrecciate: perché Spirito sa bene che dentro ogni storia individuale c’è la storia di tutti, la storia di un momento condiviso, un orizzonte politico e culturale. E così, scegliendo di raccontare la storia di Kristof in questo Centro di Padriciano (un campo profughi aperto dal 1964 fino ai primi anni ’80 riservato agli stranieri, che davvero molti non conoscono, perché è dove ha sede oggi l’Area Science Park) vuole chiamare alla mente un luogo che perde le sue connotazioni fisiche e diventa ogni luogo dove si viene perseguitati, perché il tema delle fughe per la libertà non è certo concluso, così come non sono concluse le migrazioni dalla guerre, dalle oppressioni.

Di Kristof è ancora pieno il mondo purtroppo, e ai confini molte mogli si perdono, molte rischiano di morire. Molti intellettuali vengono messi a tacere, molte testimonianze non hanno ascolto.

Nel dolore di Kristof c’è il dolore di ogni uomo costretto all’esilio, costretto a mentire per quello che ha visto e non ha più potuto dire.

Scena quasi nuda, un palco semibuio. Tra le sedie il protagonista, (interpretato da Adriano Giraldi con sobrietà e grande interiorità), che cerca la fotografia della moglie disperatamente tra quelle che è riuscito a portare con sé dentro una vecchia valigia. Alle spalle, nascosta nella semioscurità, una donna ungherese (interpretata da Marzia Postogna, capace di restare sul filo dell’ambivalenza e dell’intensità) a sua volta ospite del Campo e la cui identità si capirà nel corso della rappresentazione.

Successivamente il Direttore del Campo, Lorenzo Acquaviva (che interpreta a sua volta la fermezza ma anche l’ambiguità del personaggio). E per chiudere le presenze sul palco, il Funzionario (interpretato da Maurizio Zacchigna, con la sua forte carica scenica e l’interpretazione perfetta di quella autorità disturbante di chi non fa altro che eseguire il comando).

I quattro si alternano in momenti di riflessioni in solitaria, e momenti di avvicendamento; si avvicinano, si parlano, non si parlano, raccontano e non raccontano: c’è un detto e un non detto dall’inizio alla fine, fatto di paura e di omertà, di colpe e di innocenze.

Lo spettatore si emoziona, mentre dietro corrono diapositive che riportano il Campo, con le sue costruzioni di casette uguali dalle finestre uguali, una vera e propria cittadella, un’architettura evidentemente concentrazionaria; ma anche fotografie-documento dei carri armati in Cecoslovacchia, con immagine di gente che nelle strade si ribella, urla, piange tra i lacrimogeni.

Un’abile conduzione del regista Marko Sosič, che costruisce le scene con il minimo intervento nella fisica delle cose; lasciandoci immaginare muri che non ci sono, salti temporali, interni e esterni che durano il tempo di un dialogo, il tempo di un confronto.

Il ritmo incalzante della narrazione viene rinforzato dalle musiche di Stefano Schiraldi, che crescono nell’inquietudine progressiva dei personaggi.

Dentro questa inquietudine cresce anche la nostra, perché il finale di questo Tempo d’attesa sarà drammatico: non c’è scampo alla persecuzione, il dubbio che si insinua è che forse non ci sia scampo alla Storia.