Novello colpisce ancora

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Riedito un capolavoro della satira: “Il signore di buona famiglia”

L’Italietta e i borghesucci del 1934 tragicomicamente simili all’oggi

di Roberto Curci

 

Quante riedizioni ci vogliono affinché un certo libro sia considerato un classico? Se ne bastano una ventina, allora è un classico anche Il signore di buona famiglia di Giuseppe Novello, da poco ripubblicato da Quodlibet, a quasi novant’anni dalla sua prima apparizione. Fu infatti nel 1934 che Mondadori mandò in libreria questa raccolta di cento-più-una vignette satiriche, destinata a divenire un long-seller intramontabile e sempre incredibilmente attuale in barba al totale, ovvio ribaltone dei tempi e dei costumi. Attuale perché alla fin fine (lo si constata con un certo sgomento) gli italiani punzecchiati allora da Novello sono rimasti sempre gli stessi, con le loro miserie e piccinerie, con i vezzi, i vizi e le scarse virtù di un’umanità in cui all’epoca si rispecchiavano un’assai piccola borghesia e un’aristocrazia ipocrita e farlocca, e nella quale oggi si può riconoscere una fetta ben più ampia di società omogeneizzata al ribasso.

Graffiava davvero il pennino di Novello, intinto non nell’inchiostro ma nel curaro. Avrebbe graffiato nuovamente nella silloge intitolata Che cosa dirà la gente? (1937) e, via via, con minore spargimento di sangue, nei volumi editi da Mondadori nel secondo dopoguerra: Dunque dicevamo (1950), Sempre più difficile (1957) e Resti fra noi (1967). Questo per dire che, a parer nostro (e a prescindere dalla schermaglia su un Novello bonario oppure cattivo se non addirittura perfido intercorsa illo tempore fra i suoi ammiratori Monelli, Buzzati, Vergani, Fruttero & Lucentini), l’artista era mosso e motivato da una naturale, acuminata capacità di introspezione dell’animo umano, nel cui sottofondo, oltre alla pungente malizia, aleggiava una sorta di rattenuta indignazione piuttosto che di indulgente comprensione delle debolezze comuni.

«Queste miserie – scrisse Paolo Monelli, a lungo suo compagno di strada – sono avvolte in un’ilarità che non è cinica, non è amara, non è ironica, è semplicemente ilarità, spontanea risata. Questo avviene perché Novello non è mai un critico astioso, non è un eversore…». Ci si permetta di dissentire e di rammentare che le prime due raccolte di vignette furono edite in piena Era fascista, e l’Italietta descritta da Novello era incompatibile con la Nazione “rinnovata e marzializzata” dal regime. Certo, la sua non fu una satira “contro”, non gli sarebbe stata possibile o concessa. Fu piuttosto una demolizione sottile e subliminale, un’”eversione” (checché ne pensasse Monelli) nei confronti di un Mito di cartapesta, tanto più che “i borghesucci di Novello erano maggioranza, erano l’essenza stessa del fascismo” (Fruttero & Lucentini nella prefazione alla 14.a ristampa, 1985).

Stupisce ancor oggi la maestria dell’artista, grafica e concettuale, che nell’ambito della satira di costume ha rappresentato l’Italia e gli italiani come probabilmente nessun altro ha saputo fare nel quasi-secolo successivo (o forse sì: Altan, per fare un solo nome). Stupisce la capacità di caratterizzazione fisiognomica: nei volti dei suoi personaggi, specialmente nelle scene di gruppo, prevalgono i ceffi, i ghigni, i sorrisi melliflui, le risate sgangherate, le bocche avide, supponenti, scioccamente altezzose. Stupisce, ancora e sempre, la sapienza malandrina dell’impaginazione di ogni vignetta: titolo, disegno, didascalia, quasi in un crescendo d’ironia.

Qualche esempio: undicesima vignetta, titolo La potenza della vocazione; disegno raffigurante un ragazzetto in pigiama seduto al tavolo, penna in mano e occhi ispirati; didascalia: «Il giovanetto, avviato dal padre organista allo studio della musica, s’alza furtivo di notte tempo per darsi ai suoi prediletti studi di ragioneria».

Ancora: titolo, A due mesi dal ricevimento; disegno raffigurante un accigliato donnone  nel salotto buono con vecchia domestica alle spalle; didascalia: «La padrona di casa scopre in un vaso quattro fette della sua famosa torta al maraschino». Oppure: titolo, Il signore che ha sbagliato treno; disegno raffigurante uno sdegnoso bellimbusto seduto in uno scompartimento di prima, con valigie gremite di etichette esotiche; didascalia: «…e non se ne è ancora accorto».

La palma spetta forse alla vignetta numero 79. Titolo, Corso dei fiori; disegno raffigurante un ometto pedalante nel diluvio sopra una bici carnevalescamente camuffata da cigno del Lohengrin; didascalia: «Quinto premio (allaccia-tovaglioli) al cigno del ragioniere Franco Riccobaldi». Semplicemente feroce. Facile capire come le vignette di Novello, che apparivano sul supplemento umoristico Fuorisacco de La Gazzetta del Popolo, fossero attese settimanalmente da una vera folla di lettori.

Non vanno però scordati altri aspetti del denso curriculum dell’artista: ché tale fu, pittore sapiente di ritratti e paesaggi, allievo a Brera all’inizio degli anni Venti, presente poi a varie Biennali e Quadriennali, anche se – obbedendo al padre – si laureò altresì in giurisprudenza con una tesi comunque attinente alle arti figurative. Da alpino visse entrambe le guerre mondiali: nella prima fu coinvolto nella rotta di Caporetto, nella seconda finì prigioniero dei nazisti dopo l’8 settembre e, già dato per disperso o deceduto, rientrò in Italia dai lager tedeschi (in cui aveva avuto per compagno Giovannino Guareschi) nell’autunno del ’45.

Da entrambe le esperienze trasse immagini riunite poi in volumi: dalla prima le vignette e i racconti de La guerra è bella ma scomoda (1929), dalla seconda la sofferta serie di disegni di Steppa e gabbia (1957), relativi pure alla tragedia della campagna di Russia in cui l’ufficiale alpino Giuseppe Novello era stato coinvolto.

Nato a Codogno nel 1897, a Codogno si spense nel 1988. Chissà se a salutarlo ci fu anche quel tale “signore che sa tagliare la corda ai funerali”, vignetta novantanovesima del suo sempiterno capolavoro.

 

Giuseppe Novello

Il signore di buona famiglia

Quodlibet, 2023

  1. 240, euro 16,00