Dalla tundra con surreale poesia

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di Stefano Crisafulli

 

Una panoramica sul nulla. Così si apre Leningrad cowboys go America, uno dei film più surreali e folli del geniale regista finlandese Aki Kaurismaki, uscito nel lontano 1989. Quel nulla è la tundra, come ci avverte anche la didascalia da film muto che precede le immagini e, del resto, i suoi lavori potrebbero essere molto facilmente paragonati a quelli di Chaplin o Buster Keaton: un po’per la comicità che contiene sempre un sottofondo di tristezza e di amara ironia e un po’per la quasi assenza di dialoghi. Il cinema di Kaurismaki è un oggetto poetico non identificato nell’universo del mainstream hollywoodiano e dei film fatti in fotocopia che scimmiottano certa cattiva televisione. Ma è anche un cinema politico, che guarda agli ultimi e alla loro dignità e ricerca di riscatto sociale, come nei recenti Miracolo a Le Havre e L’altro volto della speranza che parlano esplicitamente del tema dei migranti. Per quanto Leningrad cowboys guardi un po’al minimalismo, un po’ai fratelli Marx (il titolo deriva da un loro film: Marx Brothers Go West) e un po’al filone demenziale in stile Blues brothers, rimane un’opera unica, coraggiosa e a tratti disarmante.

Dal profondo nulla della tundra, dunque, possiamo vedere, dopo una lenta carrellata, spuntare un tizio congelato disteso a terra, con chitarra fra le mani. Lì vicino una vera e propria band di tizi simili al precedente sta suonando una canzone folkloristica in stile punkeggiante e in abito rockabilly, con scarpe a punta e ciuffo d’ordinanza. Il manager Vladimir (interpretato da Matti Pellonpaa), vestito come loro, guarda impassibile l’esibizione assieme a un impresario che potrebbe ingaggiarli per una tournée, ma che, quando la musica finisce, li manda da un suo cugino negli Stati Uniti perché là si entusiasmano per qualunque cosa. E così partono con i loro strumenti, portando con sé il componente morto congelato in una bara con doverosa fessura per far passare il manico della chitarra, inseguiti dal matto del villaggio (Kari Vaananen, nei panni del classico ‘fool’ shakespeariano) che, pur essendo rifiutato dal gruppo, anche perché quasi del tutto calvo e quindi senza ciuffo, li tallona ugualmente. In aereo vengono costretti ad imparare l’inglese perché il manager li ha spacciati per musicisti americani, ma quando arrivano a New York vengono spediti in Messico, a suonare per un matrimonio, perché «qui ci piace altra roba… si chiama rock’n roll».

Comincia, dunque, una vera e propria odissea verso il sud che la band affronta con pochissimi soldi, spirito di adattamento e un’automobile grande ma scassata, che comprano dal venditore d’auto (nonché celebre regista) Jim Jarmusch, in un cameo che è anche un omaggio significativo. Fatto un corso accelerato di rock ‘n roll, iniziano ad esibirsi nei locali lungo la strada davanti a un pubblico spesso piuttosto scarso e, visto che il manager li tiene a stecchetto, finiscono per ribellarsi, sia pure con esiti estemporanei. Due le scene da ricordare: la band presa dalla nostalgia che contempla un campo arato da un trattore e il manager che, nella sequenza conclusiva, si perde nel deserto messicano dopo aver compiuto la sua missione. Un po’come sembra voler fare lo stesso Kaurismaki, che al festival di Berlino nel 2017 ha fatto intendere di volersi ritirare. Speriamo ci ripensi.