Addio ad Alberto Ongaro

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La scomparsa di un grande narratore, di un eccellente giornalista, di un gentiluomo innamorato della vita e della scrittura

di Walter Chiereghin

 

La scomparsa a novantadue anni di Alberto Ongaro è una perdita per la narrativa italiana contemporanea, per molti suoi entusiastici lettori. Per chi scrive è anche una perdita personale, dal momento che ho avuto la fortuna di essergli amico, di aver scambiato o condiviso con lui informazioni e pensieri, risate anche, indignazioni, il lutto per la perdita di un amico comune, Luciano Comida, che ci aveva presentati girandogli senza autorizzazione una mia lunga mail nella quale argomentavo, con una certa disinvoltura, il mio entusiasmo per la lettura, tardiva, della Taverna del doge Loredan, il romanzo che mi aveva assorbito per una nottata intera, senza che mi riuscisse di staccarmi da quelle pagine.

Il momento del resoconto di una biografia, quello dell’analisi di un’opera letteraria di grande qualità, quello di una valutazione riassuntiva della sua attività di inviato speciale dell’Europeo, di narratore e di sceneggiatore di fumetti per Hugo Pratt, di appassionato di cinema non è questo, non per me.

Mi vorrete scusare se mi provo a darvi un’incompleta immagine di chi è stato Alberto riassumendo la mia testimonianza di uno dei più felici nostri incontri nella sua casa del Lido di Venezia, sul finire dell’estate del 2006, un pranzo e un pomeriggio condivisi con Luciano e con le nostre mogli, Tatjana, Donatella e Patrizia. Per farlo, riprendo in buona parte quanto scrissi all’epoca sul mensile Konrad, nel numero di ottobre 2006, in un lungo articolo intitolato La terrazza del doge.

Abbiamo raggiunto nell’ultima domenica di agosto il Lido di Venezia, appena prima che lo invada il baraccone della Mostra del Cinema. La meta è la casa di Alberto, all’ultimo piano di una palazzina, una spettacolare terrazza aperta da un lato sulla laguna ( San Marco è nascosto, solo in questa stagione, dalle cime degli alberi più alti) dall’altro lato la spiaggia e il mare aperto. “Voi siete là!” indica col dito Donatella, padrona di casa elegante e vivacemente cordiale. Invece ora siamo qua, in questa casa spalancata in ogni senso agli azzurri, alle idee, agli amici.

“È una metafora un po’ abusata, questa della tua terrazza che dà sul mare da un lato e dall’altro sulla laguna, così simile alla tua vita di grande viaggiatore, ancorato però a questa città, alle tue origini. Me ne sono accorto dopo averlo scritto in un articolo, di non esser stato originale…”

“Sì, lo hanno anche stampato sul risvolto di copertina di un libro, parlavano di un attico… ho chiesto loro di toglierlo. Ma quale attico! Lo vedi anche tu che è un normale appartamento!”

“Tu sei nato qui, al Lido?”

“No, no: a Venezia, proprio in una casa sul Canal Grande: più veneziano di così!”

Vediamo in anteprima la bozza della copertina dell’ultimo romanzo, Il ponte della solita ora, in libreria tra qualche settimana. Viene sturata una bottiglia di prosecco e brindiamo tutti e sei, non si capisce bene se alle fortune del nuovo romanzo, se agli ottantun anni di Alberto compiuti da pochi giorni, o solo a questo nostro incontro.

A tavola, dove indugiamo al riparo fresco di una tenda, s’intrecciano discorsi leggeri e briosi. Per quelli di politica non c’è partita, per quanto omogenei sono i punti di vista di tutti, e finiscono presto per sfrangiarsi in sapide battute, in sorrisi derisori e insieme di liberazione, per quanto è ormai alle nostre spalle dallo scorso aprile (nell’aprile di quell’anno si aprì la XV legislatura repubblicana, con una maggioranza di centro sinistra che avrebbe dato origine al primo governo Prodi n.d.r.). È Ongaro a introdurre una nota più seria, richiamando con energia l’esigenza di reintrodurre il principio delle responsabilità individuali “Troppo spesso si richiamano le colpe della società – che pure ci sono – a giustificare le mancanze dei singoli: si deve invece pensare anche alla moralità privata. Non tutto può diluirsi in un ambito sociologico che annacqua la responsabilità di ciascuna persona”. Mi viene in mente un suo romanzo, La strategia del caso, tutto imperniato intorno all’assillo morale di un anziano professore, eroe azionista della Resistenza. Puntuale, poco dopo, la conferma di quel mio pensiero, da parte del padrone di casa: “Vi sono stati, per me, tre momenti alti nella storia di questo Paese nel secolo passato: la Resistenza, la ribellione della società civile costituita dal periodo di Mani Pulite e poi – ma qui forse sono sviato da motivi familiari – la riforma psichiatrica, la liberazione dei reclusi nei manicomi. L’abito familiare cui si riferisce è quello della memoria della sorella Franca Ongaro Basaglia, scomparsa nel 2004, moglie dello psichiatra.

Gli chiedo di parlarmi dei suoi esordi lavorativi, e ritorna volentieri con la memoria agli anni della giovinezza, all’affacciarsi sul mondo del fumetto assieme all’amico Hugo Pratt, col quale aveva fondato una rivista che attirò l’interesse di un editore argentino. “Hugo e un altro amico erano già a Buenos Aires e mi pressavano perché li raggiungessi: avevano bisogno dei soggetti e delle storie che sfornavo a getto continuo. Pensavo di poterlo fare da Venezia, anche perché c’erano gli studi universitari da completare, ma alla fine l’editore, il più importante d’Argentina, mi propose un contratto che, come si dice, non si poteva rifiutare e mi risolvetti a partire. In aereo, feci vedere il contratto a un occasionale compagno di viaggio argentino, che ritenne ci fosse un errore di battitura: uno zero in più nell’indicazione del mio compenso”. Gli chiedo come fosse Pratt senza la matita in mano. “Geniale, come quando disegnava. Un grande affabulatore, , come non ne ho più conosciuti, col senso dell’ironia, del comico persino. Nei ristoranti milanesi la gente avvicinava i tavoli al nostro, sicché a fine serata si formava quasi un’unica tavolata. Le risate… “. Interviene anche Donatella: “Con Hugo si rideva finché dolevano le mascelle. Nostro figlio è nato di otto mesi e niente mi toglie dalla testa che quella gravidanza si fosse abbreviata per le tante risate delle serate con lui”.

Il caffè lo beviamo sulle sedie e le sdraio sparpagliate sulla terrazza e a poco a poco la conversazione si sposta sui libri di Ongaro, quelli che tutti conosciamo e gli altri che sono in arrivo.

“C’è un libro che preferisci, tra quelli che hai scritto?”. Sa bene che io sto pensando alla Taverna, che per me è stata un’esperienza di lettura indimenticabile: Alberto dice che è il libro che io avrei voluto scrivere e c’è molto di vero in quella sua affermazione. Pensa un attimo prima di rispondere: “No, non direi. Proprio di recente ho riletto Il segreto dei Segonzac e La partita. Erano anni che non lo facevo e devo dire che mi hanno ancora divertito”. Interviene Luciano: “È un po’ come chiedere a qualcuno quale dei suoi figli preferisce!”. “La metafora è un po’ eccessiva, però è così, o quasi. Ciascun libro corrispondeva alla mia esigenza di dire qualcosa, raccontando una determinata storia. Li riscriverei tutti di nuovo, non ho preferenze. Forse non riscriverei il primo, Il complice, ma gli altri direi proprio di sì”. Mi fa piacere sentirglielo dire.

“Tra le cose che amo di più in ciò che scrivi c’è la sapienza costruttiva, il dipanarsi delle storie che tiene avvinto il lettore, fino al punto di fargli dimenticare che sta leggendo un libro”. ”Sai, quello che mi sarebbe piaciuto fare, nella vita, è lavorare per il cinema, scrivere soggetti e sceneggiature”. In parte lo ha fatto, per i fumetti. “Sì, ma il cinema è un’altra cosa. Un film è stato realizzato, da L’ombra abitata, ma non è stato mai distribuito in Italia. Un altro fu tratto dalla Partita. Poi si sarebbe dovuto farne uno tratto dalla Taverna, con Orson Welles nei panni di Fielding; c’eravamo andati vicino, ma invece non se ne fece nulla…”. Penso che è stato un vero peccato. Poi gli chiedo come gli nascano le idee per imbastire una storia. “Spesso da un dettaglio, da un’osservazione che faccio su una coincidenza curiosa. Ricordi ad esempio L’ombra abitata?”. Certo che lo ricordo: il protagonista s’imbatte in una fotografia, esposta in una mostra londinese, nell’immagine parigina di una ragazza di molti anni prima, che avrebbe anche potuto essere la sua Rose Lafitte. Un’altra storia di coincidenze, imperniata sul mistero di una donna, che alla fine si tinge di giallo… “Bene: l’idea mi è venuta semplicemente guardando una foto di Cartier Bresson. Anche in quella c’era un’atmosfera che ricordava i miei anni giovanili, negli abiti, nelle automobili… tutto insomma. Poi ci ho costruito una storia attorno, ma l’idea mi è venuta da lì, da quella fotografia che riguardava in certo senso la mia vita.”

Parliamo poi diffusamente di un nuovo romanzo in gestazione, che ha avuto la cortesia di farci leggere in una prima stesura: ci chiede conto delle critiche che abbiamo avanzato, che in parte accetta, in parte respinge, com’è logico che sia. Del resto è lui il Maestro, mica noi.

Sapendo che un poco lo imbarazza scrivere dediche, gli ho portato da Trieste tre suoi volumi per farmeli autografare, lasciando per ultimo la “mia” Taverna “perché tu possa allenarti un po’ scrivendo prima le altre due dediche”. Un po’ riottosamente si mette al lavoro ed è inutile dire che, fin dalla prima delle tre dediche, il risultato porta in sé il calore di un abbraccio affettuoso.