Affamati d’amore

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di Adriana Medeot

Il Teatro La Contrada ha proposto, in occasione della Giornata contro la violenza sulle donne, di mandare in scena al teatro dei Fabbri la sera del 25 e 26 novembre Affamati, costruito su una selezione di testi e con la regia di Sara Alzetta. Oltre a lei, la carismatica presenza di Ariella Reggio sul palcoscenico e l’accompagnamento musicale – ma non solo – di Paolo Butti hanno dato vita a una scoppiettante pièce che si è retta sulla lettura di una pluralità di brevi testi organizzati attorno a un tema più esteso di quello della violenza, andando a toccare il complesso delle problematiche connesse al ruolo della donna nella coppia, nella famiglia e nella società: una riflessione tenuta su un tono solo vagamente polemico, di una sottile ironia nonché su una notevole dose di autoironia.

Un’ironia venata di una latente amarezza, com’è stato fin dal primo monologo, opera di Stefano Bartezzaghi, letto dalla Reggio: «Un cortigiano è un uomo che vive a corte, una cortigiana è… una mignotta, un passeggiatore è un uomo che cammina, una passeggiatrice è una mignotta…» e così via, fino a dire della differenza tra uno zoccolo e una zoccola.

Alternandosi nella lettura e spesso interagendo in fitti dialoghi tra loro, le due attrici hanno colorato con vivacità e destrezza la scena, accompagnate dalla tastiera di Butti, che spesso non si limitava alla sua attività di musicista, intervenendo con una mimica ora paciosa ora rassegnata a sottolineare le impuntature polemiche o talvolta le caricaturali invettive scagliate dalle due protagoniste contro il genere maschile. Non si deve pensare che, pur trattando con brillante spigliatezza quanto proposto agli spettatori, la messa in scena abbia mai rasentato la farsa. Anche se detti con estro brioso, ciascuno dei testi incorpora un contenuto tremendamente serio e il pregio dell’ordito drammaturgico risiede proprio nella capacità di aver sollecitato una riflessione che ha messo a nudo pregiudizi e conformismi, ponendo il pubblico di fronte a una concezione della donna che, dagli aspetti più superficiali fino a quelli più drammatici, è funzionale a mantenerla in uno stato di subalternità psicologica, quando non anche materiale, fino oltre il limite della violenza e del crimine.

Accurata e intelligente la scelta dei testi, che spaziano dalla rivisitazioni dei classici greci ad opera del drammaturgo Manlio Marinelli al Misantropo di Molière, dalla femminista americana Valerie Solanas – autrice del Manifesto SCUM e tentata omicida di Andy Warhol – a un brano dalla sceneggiatura del film di Pedro Amodovar Tutto su mia madre, dalla Virginia Woolf di La gita al faro a Serena Dandini di Ferite a morte, da Giuseppe Mazzini (proprio lui!) a Elizabeth Strout, che viene proposta in un monologo su ciò che plausibilmente avrebbe detto – post mortem – Laura a Petrarca (tra l’altro: «tu non amavi me, amavi l’ amore che sentivi per me»). E ancora Christine Brückner, Barbablù, più alcuni passi connettivi della stessa Alzetta.

E tutto questo miscelato in un alternarsi delle due attrici o in un loro brillante dialogare, intervallato di tanto in tanto da un registro dialettale, non soltanto triestino, come pure da qualche brano popolare di musica.

Il risultato è una pièce acuta e graffiante nel suo indagare la condizione femminile, ma realizzata, nella lettura che ne hanno offerto Alzetta e Reggio, con una sapiente leggerezza, sottraendo il peso di quando in fondo stavano dicendo agli spettatori, quasi in ottemperanza alle indicazioni che ci forniva per il millennio in cui stiamo vivendo Italo Calvino nella prima delle sue Lezioni americane, dedicata appunto alla leggerezza.