AGOSTO AL CINEMA

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UN MESE DI CINEMA

di Pierpaolo De Pazzi

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Il cliente (Asghar Farhadi, Iran, 2016). Vincitore del premio Oscar 2016, dopo quello già vinto dal regista nel 2012 per Una separazione.

Emad e Rana sono una giovane coppia di attori dilettanti (lui è insegnante) costretta a lasciare la propria casa al centro di Teheran per un danno strutturale, causato dai disordinati lavori edili che fanno crescere le case come funghi. Un loro amico attore procura una sistemazione temporanea, ma non sanno che l’equivoca attività della precedente inquilina sarà la causa di un “incidente” che cambierà la loro vita e il loro rapporto.

Anche questo film ruota attorno a una vendetta, col peso del non detto che mina la stabilità di una coppia, e non manca l’elemento della critica alla società iraniana, apparentemente evoluta ma pronta a ritornare all’atavico sentimento di rivalsa contro chi ferisce la famiglia.

Questa volta però la storia non gira bene come nei precedenti film (About Elly, soprattutto Una separazione) È appesantita da un intellettualistico e farraginoso parallelo con la vicenda di Morte di un commesso viaggiatore, messo in scena dalla compagnia della coppia protagonista e non riesce a far provare allo spettatore empatia con i personaggi. La parte finale del film è eccessivamente lunga: la vendetta, lungi dall’incollarci alla sedia, provoca invece qualche sbadiglio e sbirciatina all’orologio.

sul fiu,e

La morte corre sul fiume (The Night of the Hunter, unica regia di Charles Laughton, USA 1955), tratto dall’omonimo best seller di Davis Grubb del 1953, ispirato da una storia vera, è un film che avevo visto da piccolo alla televisione e che rivedo oggi sul grande schermo grazie a Il cinema ritrovato (al Cinema), distribuito dalla Cineteca di Bologna. Ricordo con un sorriso nostalgico il terrore che provai da piccolo, ma si tratta ancora oggi di un film profondamente inquietante e disturbante.

È infatti una sorta di horror politico, girato con sensibilità espressionista, venato da misoginia, a metà strada tra Hansel e Gretel e Huckleberry Finn, un tentativo di integrazione (non sempre perfettamente riuscita) delle straniate visioni di un inglese (Laughton) sul lato oscuro dell’America con quella, preponderante, del bambino protagonista, rimasto orfano, sul mondo degli adulti. Ne diceva Truffaut: «somiglia a un fatto di cronaca orrendo raccontato da dei bambini piccoli».

Il fatto è questo: Stati Uniti del Sud, un poveraccio che aspetta la forca per rapina e omicidio si tradisce con il compagno di cella, sedicente uomo di Dio, assassino malvagio e malato, mettendolo sulle tracce del bottino, il cui segreto è custodito dai figlioletti. Dopo la sua esecuzione e la propria scarcerazione, il predicatore, che vuole il denaro per costruire una chiesa, trova la sua famiglia e ne sposa la vedova. Viene assecondato da lei e da tutto il paese, che subisce il malefico fascino delle sue grossolane predicazioni. Puritano, non consuma il matrimonio e finisce per assassinare la moglie.
I bambini fuggono su una barca lungo il grande fiume, inseguiti dal predicatore e trovano accoglienza da una donna che raccoglie e aiuta bambini orfani e sperduti. Quando compare il predicatore, la donna non si lascia incantare e difende i bambini.

L’infanzia dunque non è solo una magica luce, ma è anche il buio che atterrisce, popolato da figure che si animano, visioni, sogni cattivi e incubi, uomini neri che la mamma non vede, premonizione di abbandono e solitudine.

Giganteggia come genio del male Robert Mitchum, schizofrenico e sessuofobico, caricatura del predicatore puritano americano, che insegue con la propria ombra che si allunga il bambino, fino a schiacciarlo.

Il film, che è ambientato all’epoca della grande depressione, rappresenta un capolavoro di visione, poco teatrale malgrado l’estrazione classica del regista, capace di mescolare la tradizione gotica con quella del musical più visionario.

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Atomica bionda (Atomic Blonde, David Leitch, USA 2017), tratto dalla graphic novel The Coldest City (2012) scritta da Antony Johnston ed illustrata da Sam Hart.

È il 1989, pochi giorni prima della caduta del Muro, ma a Berlino le spie di tutti i paesi continuano a confrontarsi e anzi, prive ormai di riferimenti, diventano ancora più violente e imprevedibili. Tra loro si muove la nostra protagonista…

Buone le scene d’azione, l’estetica un po’ video clip un po’ fantascienza alla Blade Runner, evocatrice e trascinante la colonna sonora, perfettamente al centro di tutto la protagonista, instancabile punto di tenuta di tutto il film, grazie alle sue performance ci fa sorvolare su una trama non certo rivoluzionaria, priva di veri colpi di scena, appoggiata in modo insicuro su una sceneggiatura traballante e piena di incertezze e zoppie.