Alla ricerca di Bobi Bazlen

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di Stefano Crisafulli

 

Chi era Bobi Bazlen? Uno scopritore di talenti letterari, uno snob, un folletto, uno scrittore mancato, un taoista della prima ora, uno junghiano convinto? Probabilmente, dopo aver visto sabato 22 gennaio al cinema ‘Ambasciatori’, per la sezione ‘Art & Sound’ del 33esimo Trieste Film Festival, l’ampio e interessante documentario del regista e sceneggiatore triestino Giampaolo Penco dal titolo: Bobi Bazlen – con uno zaino pieno di libri si può dire che era tutto e, allo stesso tempo, niente di tutto questo. Perché Roberto Bazlen, detto ‘Bobi’, è stata una presenza tanto importante quanto inafferrabile della letteratura italiana del ‘900: frequentatore del gotha letterario triestino, sarà lui, tra le altre cose, a far conoscere i lavori di Italo Svevo a Montale e le opere di Stelio Mattioni e a fondare la casa editrice Adelphi, ma nel corso della sua vita scriverà un unico libro, Il capitano di lungo corso (alcuni passi del quale vengono letti, nel film, dall’attore Vladimir Jurc, presente in sala), senza peraltro completarlo, perché erano mille volte preferibili le note a margine ad un libro intero.

Eppure i libri erano il suo universo: ne parlava, da lettore onnivoro, a tutti i suoi amici e il primo volume pubblicato dalla Adelphi sarà L’altra parte di Alfred Kubin, proprio grazie a un suo consiglio. Il regista Giampaolo Penco partirà da tutti coloro che lo avevano, in qualche modo, conosciuto, direttamente o indirettamente, per rintracciarne le orme: Anna Foà, figlia di Luciano Foà, Gian Pietro Calasso, fratello di quel Roberto Calasso che poi gli dedicherà un breve saggio, Franca Malabotta, Elisa Debenedetti. Ma per ricostruire il puzzle sono stati interpellati anche altri due precedenti investigatori, affascinati dal suo eterno sfuggire ad ogni forma di catalogazione: lo scrittore Daniele Del Giudice, morto nel settembre 2021 e autore del libro Lo stadio di Wimbledon, ispirato proprio alla figura di Bazlen, e il regista francese Mathieu Amalric che da quel libro trasse un film curioso ed enigmatico.

Tutti sulle sue tracce, dunque, per poi finire col girare in tondo e non approdare a nulla di solido, perché Bazlen, in fondo, non voleva farsi trovare. Lo dice esplicitamente Penco, presentando il film al pubblico del Trieste Film Festival: «Bobi Bazlen, in questo, era molto triestino: in cerca di una diversità rispetto al resto del mondo, orgoglioso e, allo stesso tempo, introverso». Una triestinità, anch’essa, vissuta in modo travagliato: nel 1937 se ne va da Trieste dicendo di non voler mai più tornare, ma poi Franca Malabotta ricorda che quando veniva a farle visita la prima cosa di cui chiedeva notizie era proprio la sua città natale.

Nomade di luogo e di pensiero, Bazlen si recava in altre città con il suo zaino pieno di libri, tanto che nell’antro in via Margutta a Roma, dove ha abitato per un po’ di tempo, c’erano libri sparsi dappertutto, come ricordano gli amici che lo frequentavano. La diversità di Bobi era sottolineata anche dalle sue amicizie letterarie: Umberto Saba, freudiano, gli rimproverava di amare Jung (e, sotto sotto, anche la figlia Linuccia, tanto che i rapporti si interruppero proprio per questo), mentre ad Ezra Pound, confuciano, non piaceva il suo lato taoista, come rivela Mary De Rachewiltz, poetessa e figlia di Pound. Nel tentativo, confessato apertamente dal regista, di psicoanalizzare a posteriori Bazlen, sia pur rispettandone la volontà di non apparire, vi è anche un accenno ai genitori. Dietro di lui si stagliano, come uno sfondo invisibile, una madre che, a detta degli intervistati, doveva essere piuttosto incombente e un padre che Bobi non ha mai conosciuto, perché muore un anno dopo la sua nascita. Forse è per questo che nel film di Penco spesso Bazlen viene visto da alcuni dei protagonisti come una figura paterna. Quella che, in effetti, non ha mai avuto.