Alla tomba di Njegoš

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Quasi un pellegrinaggio nel Montenegro di oggi

di Viviana Novak

 

Cetinje è silenziosa in questa mattina umida di primavera e anche nella piazza su cui si affaccia il palazzo dei Petrović tutto sembra sospeso nel tempo. Tenta di esprimersi in italiano un uomo che mi indica la strada verso il parco di Lovćen e accenna a saghe e a racconti popolari in cui sopravvive, in una dimensione da eroe romantico, il Vladika, il Rade Tomov, il principe poeta dei Balcani.

C’è nebbia intorno all’antica capitale di questo giovane Stato. Percepisci nei discorsi della gente un’antica fierezza, mentre sembra echeggiare nell’aria il canto dei guslari, eredi degli antichi aedi greci. A Cetinje si ricorda Elena, regina d’Italia, moglie di Vittorio Emanuele III, figlia del re Nicola del Montenegro.

Lasciando alle spalle il centro e l’imponente Monastero, ti accompagnano i ruderi di vecchie fabbriche, presenza ingombrante di un socialismo ormai archeologico. Si dice che l’artista performer Marina Abramović, tornata recentemente dagli Stati Uniti a Cetinje, sua città natale, si sarebbe impegnata per trasformarle in laboratori da destinare ai giovani talenti, che qui non mancano.

Si comincia a salire per raggiungere il Mausoleo dove è sepolto Petar II Petrović Njegoš, il principe vescovo, il Vladika appunto, il poeta degli Slavi meridionali, l’uomo combattuto tra le sue molteplici vocazioni di narratore, di filosofo, di religioso e quella di governante di un popolo difficile da governare per le troppe sopravvivenze tribali. “Sovrano tra i barbari e barbaro tra i sovrani” volle definirsi, consapevole anche della difficile posizione di un territorio conteso tra l’Impero Ottomano e le varie potenze straniere: “La croce e la mezzaluna… sopra le tombe regnano”.

Vissuto tra il 1813 e il 1851, rinunciò alla carica ecclesiastica e conservò solo il potere temporale, liberando il Montenegro dai suoi retaggi feudali. Volle essere solamente “kniaz”, il principe appunto. E Ivo Andrić gli dedicò anni di ricerche, facendo emergere una figura emblematica, di uomo tormentato, cui ancora oggi si lega l’esistenza del mito romantico del Kosovo.

Si attraversa il parco nazionale lungo una strada che si fa sempre più ripida. La nebbia della piana sottostante s’infittisce e si mescola a pioggia. Abeti altissimi accompagnano tornanti che si vedono appena. Ed è forse dalla presenza di questi pendii coperti da fitti boschi che nasce il nome di Crna Gora, che noi traduciamo con Montenegro.

Si sale sospesi nell’indefinito, in preda a romantiche suggestioni.

Njegoš chiese di essere seppellito lassù, a 1660 metri d’altezza, quasi una beffarda sfida nei confronti dei profanatori delle reliquie. Una piccola cappella sulla vetta di Jezersko dal 1851, anno della morte, custodiva le sue spoglie. Ma le spoglie non trovarono pace e furono spostate, per la settima sistemazione nel 1925, in una nuova chiesa edificata dove gli austriaci avevano distrutto quella precedente.

Gli abitanti del luogo gli avevano indicato per la sua sepoltura la cima più alta di Stirovnik, ma “quella – avrebbe detto – spetterà a qualcuno più grande di me”.

Poi, a distanza di un secolo, venne chiamato il grande scultore croato Ivan Meštrović, per creare qualcosa di solenne, sospeso tra cielo e terra a celebrare il mito della grandezza, sulla vetta del mistico “olimpo” montenegrino. Una tomba da raggiungere in salita, faticosamente, metafora tangibile di un percorso umano non sempre facile. Un’opera mastodontica tipica del realismo socialista il cui progetto fu origine di molti contrasti ideologici, pur essendo caldeggiato dal Partito Comunista del Montenegro. Molti obiettarono che una tomba faraonica era in contrasto con la figura e la vita di Njegoš, sovrano e vescovo, con esperienze di vita monastica e in profonda contraddizione con le sue ultime volontà. L’abbattimento della chiesetta, sostenuto dal presidente Tito, trovò l’opposizione di molti montenegrini che rifiutavano l’idea della distruzione di un luogo sacro. Ancora si ricorda il nome del capocantiere che si rifiutò di essere impegnato nella demolizione, e con lui si schierarono molti operai di fede musulmana, come racconta Bozidar Stanišić che approfondì la ricerca sulla figura di Njegoš nella sua tesi di laurea. Un caso di “disobbedienza” che sembrerebbe paradossale per chi non conosce il mondo balcanico nelle sue intime contraddizioni.

“Da quassù si vede il mare, si domina il Montenegro, nelle giornate limpide si può intravvedere la costa pugliese”. Così scrivono le guide, ma oggi solo nebbia e pioggia ti avvolgono in un mondo spettrale da romanzo gotico. Arrivati alla cima, si lasciano i mezzi e si prosegue a piedi, sferzati anche da un vento gelido. Impossibile proteggersi. Forse Njegoš esige quest’ultimo sacrificio per mettere alla prova l’abnegazione del visitatore curioso.

Alla base di un’erta scalinata d’accesso di 461 gradini sulla cresta del monte, una costruzione recente con ristorante annesso, negozio di souvenir e biglietteria, segno di nuovi passaggi turistici. Sembra una profanazione della sacralità, ma risulta un fondamentale ricovero per chi rinuncia alla salita in queste condizioni.

A cimentarsi con l’ascesa si è in pochi, con bordate di vento gelido che ti potrebbero scaraventare a terra. Non c’è nulla su cui sostenersi. Poi, nell’ultimo tratto, una galleria sembra offrirti un momentaneo riparo ma il vento imperversa e crea un gioco di correnti. Alla fine della salita il granito scuro di due gigantesche cariatidi prende corpo nella nebbia.

Meštrović le ha volute rappresentare in abito tradizionale, possenti e altere come la gran parte delle donne di questo paese. Reggono la trabeazione di un piccolo portico da cui si accede a una sala absidata con la statua gigantesca di Njegoš in abito montenegrino. Figura titanica ottenuta da un unico blocco di granito. Un’aquila lo sovrasta e sembra avvolgerlo con le ali mentre lui impassibile guarda in basso severamente, in un atteggiamento di profonda riflessione. L’oro del mosaico della cupola ti abbaglia dopo tanto grigio e ti dice che Bisanzio non è poi così lontana nel tempo. La sua tomba di marmo, nella cripta sottostante in un’atmosfera di spoglia essenzialità, ti consegna il messaggio dei suoi versi.

È “Il serto della montagna”, il suo poema più famoso e più tradotto, a parlare: “beato colui che vive per sempre/aveva ragione di essere nato”. Fanno riflettere queste parole pronunciate da un saggio, calato nella cultura romantica europea, e involontariamente riportano al mito foscoliano della poesia eternatrice.

La discesa è impegnativa con le bordate gelide e i gradini scivolosi che sembrano condurti nel nulla. Poi nella taverna ti offrono della rakia e del prosciutto affumicato di Njeguši, villaggio ai piedi della cima, da dove provengono i Petrović. E ti raccontano che Meštrović, che ai tempi del progetto viveva negli Stati Uniti, volle proprio quella rakia e quel prosciutto sapientemente affumicato col legno di faggio, come compenso per il suo lavoro. Niente altro. Il faraonico mausoleo, in realtà, avrebbe visto la sua realizzazione completa parecchi anni dopo la morte dello scultore, nel 1974.

Ormai la leggenda prevarica sulla storia, ma la gente qui vive di miti ed il Vladika è un mito condiviso tra i popoli balcanici, nonostante il tentativo recente di strumentalizzarne politicamente il pensiero.

In questo paese il rimpianto della Jugoslavia è ormai appartenenza delle generazioni più vecchie e forse s’identifica con la nostalgia della giovinezza e del suo patrimonio di speranze e illusioni. I giovani si sentono protagonisti del cambiamento da quando nel 2006 il Montenegro è diventato indipendente. Insanabili fratture hanno devastato le coscienze e segnato confini mentali, oltre che fisici. Ma a dispetto della storia e delle sue lacerazioni, il messaggio di Njegoš assume oggi il valore di un monito universale nel ricordare al suo popolo che “è beato colui che vive per sempre”. Nei ricordi e nelle leggende che nessun crimine di guerra potrà mai cancellare.