Altieri sulle tracce del Nievo

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di Diego A. Collovini

 

A volte ci si aspetta che dopo le grandi “calamità” l’arte se ne esca rafforzata, ricca di riflessioni e accompagnata da innovative sperimentazioni linguistiche o caratterizzata da nuovi contenuti. Invece mi pare che, dopo due anni di silenzio, non si avvertano grandi proposte; questo mi pare abbia evidenziato anche la recente “Artefiera” di Bologna. Tanta gente, molte gallerie, naturalmente, divise in due livelli. In un padiglione artisti particolarmente conosciuti, nell’altro non diremo esordienti (dato che molti si conoscono da decenni), ma apprezzabili per il loro impegno, per i risultati artistici e pure per il mercato. Se da un lato i grossi galleristi lamentano la mancanza di un collezionismo di qualità, dall’altro quelli meno conosciuti, invece, denunciano l’assenza di un collezionismo economicamente medio.

Sono i sintomi della debolezza di un sistema in cui le gallerie, pubbliche o private, non svolgono più il ruolo di mediazione tra gli artisti. Di essere cioè quel luogo dove artisti, storici dell’arte, curatori, collezionisti e qualche superstite della critica d’arte si trovano a dialogare e confrontarsi sulle nuove proposte di ricerca. C’è aria di solitudine e non solo a causa della pandemia. Chi ha voglia di curiosare tra i trecento canali che la televisione ci propone, scoprirà che una ventina di questi si occupano di aste d’arte, ciò significa che il collezionismo non è morto, ma non sta proprio benone. Opportunamente non mi soffermo sulla qualità, che è ben difficile da valutare in video, ma vorrei far notare l’abuso del sostantivo capolavoro e quanto possa essere distorto tale termine in mancanza di un dialogo diretto.

Queste riflessioni, direi immediate e sentimentali per un certo verso, mi portano ad apprezzare, e moltissimo, il lavoro – che definirei eroico visto la quasi scomparsa di tanti galleristi e gallerie – di Franch Marinotto. Forse l’ultimo gallerista di una solida tradizione espositiva nel goriziano. Ha dato prova di determinazione nelle ultime tre esposizioni del 2022 organizzate nella sua galleria “La bottega”, a Gorizia, dove si sono alternati Enzo Valentinuz, Luciano de Gironcoli (di cui se n’è parlato nei numeri precedenti) e Sergio Altieri.

Coprotagonista è stata l’atmosfera culturale vissuta nelle tre iniziative. Si è avvertita una giusta motivazione per esserci. Folto pubblico e di diversa natura: alcuni collezionisti, frequentatori della galleria, artisti, appassionati e amici. Per ben tre volte si è respirato un mondo di altri tempi. Ho visto le persone fermarsi a guardare e scambiare commenti, esprimere giudizi comparativi tra un’opera e un’altra. Ho sentito riflessioni sull’attualità dell’arte e fare confronti (non sempre ottimistici) con periodi più vivaci degli attuali. Personalmente ho provato una sincera emozione.

Della mostra di Sergio Altieri, nella quale non ero coinvolto (sebbene l’avrei fatto volentieri), ho gradito che il previsto silenzio critico sia stato interrotto dalle parole di de Gironcoli, un artista che, in quella galleria, aveva preceduto Altieri. E ciò in presenza di altri esperti d’arte. Credo che l’artista ne sia uscito lusingato, perché sono convinto che l’estemporaneo intervento abbia stimolato il necessario confronto tra l’artista e i presenti.

Altieri è artista molto conosciuto. È pittore di grande personalità. Nel contesto culturale goriziano è stato ed è – come si è visto – un punto di riferimento.

Artista da sempre e solo artista. E già questo appare essere un elemento caratterizzante e distintivo. L’arte ha significato la vita ed è la sua vitalità creativa; è stata una scommessa sulle proprie capacità di comunicare e di interessare gli spettatori. Una dimostrazione di saper condividere le proprie sensazioni di un mondo che, nelle sue pitture, appare quasi estraniato dal tempo, sebbene ogni rappresentazione figurativa della mostra abbia stimolato la ricerca di un progressivo accadere, in parte suggerito dal titolo: “Sulle tracce del Nievo”. Rievocare Nievo significa guardare al passato, a un periodo che fantasticamente vive nelle parole dello scrittore. Però sarebbe riduttivo se guardassimo alle opere di Altieri pensando ad un’età che non c’è più.

C’è una parola che, a mio parere, interpreta il suo lavoro: Intimità. A cominciare dal linguaggio pittorico, dai colori, dalle sfumate figure; dai contrasti di luce che, se da un lato scombinano un percettivo rapporto tra notte e giorno, dall’altro il forte contrasto tra chiaro e scuro anima mute figure che sembrano uscire da un tormentato sogno. I suoi paesaggi rifiutano e rigettano le sirene della nostalgia di una civiltà passata, perché sono l’intimo presente. Da un lato immagini sfumate o solo accennate, dall’altro figure improvvisamente illuminate che si perdono come macchie di colore, forme oniriche immateriali nello spazio. Non tracce di un tempo passato, ma apparizioni interiori di un inconfessato esistere in un mondo reso sbiadito da vibrazioni cromatiche e improvvise luminosità. È l’intimo contatto con le cose che idealmente ancora esistono e scandiscono un silenzio esistenziale, che rende la realtà ancora più misteriosa, più interiore e più segreta. Non penso alle sue pitture come a una trasformazione della realtà in fantasia, ma un’apparizione nel suo essere raccontata e descritta con il fascino dell’antico linguaggio della pittura veneziana. Personaggi che si stagliano nel chiaro scuro riverberando momenti singolari e personali, sentimenti inaspettati, improvvise epifanie. Se i paesaggi sono i testimoni di un succedersi di stili, di forme, di interpretazione, quelli di Altieri rappresentano un mondo in cui il tempo si è fatto immobile; intima espressione di una personale esperienza. Similmente al Nievo, che con le parole ha reso immobile la cucina di Fratta, così Altieri, attraverso la pittura, narra, nel suo essere quasi malinconico, un’intima percezione atemporale del proprio mondo.

 

Il Castello di Colloredo

di Montalbano

tempera su tela

2022