Amleto a Gerusalemme

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Le storie narrate dai ragazzi che quotidianamente le vivono

di Adriana Medeot

 

Vi piacciono le storie? A me sì. Da piccola leggevo di nascosto, invece di studiare, le novelle delle Mille e una Notte, che avevo trafugato dalla biblioteca di mio padre. E sognavo. Ebbene anche in questo spettacolo si raccontano storie, però sono storie vere, che non fanno sognare ma riflettere. Sono storie che denunciano condizioni di vita estremamente difficili, storie di persone costrette a subire situazioni di sofferenza, causate da decisioni politiche internazionali che non tengono conto del vivere quotidiano dei singoli individui. Storie che hanno ispirato, una volta ancora – e meno male – quel teatro di narrazione e di ascolto, nonché di conseguente denuncia civile che già accomunò Gabriele Vacis, regista, e Marco Paolini, autore e attore, nella messinscena dell’ ormai mitico Vajont (1993).

Il loro incontro artistico è in realtà precedente. Si conobbero nel 1981 all’International School of Theatre Antropology di Eugenio Barba – deus ex machina Grotowski – il che fa comprendere l’intenzione che muove il loro lavoro: cogliere gli elementi comuni in tutte le arti teatrali del mondo. Quelli comuni e fondanti, non quelli che generano separazione

Lo spettacolo, che è andato in scena al Teatro Rossetti dal 4 all’8 maggio, è il risultato di un lavoro iniziato nel 2008, quando prese il via il progetto di creare una scuola di teatro a Gerusalemme, che si è potuto realizzare grazie alla cooperazione tra il Palestinian National Theatre e il Ministero degli Esteri italiano. Molti dei ragazzi che hanno avuto la possibilità di parteciparvi sono diventati protagonisti della pièce teatrale che – di fatto – mette in scena le loro storie.

La storia di Alaa Abu Gharbieh, che racconta della sua dipendenza dalla droga e di una notte in cui, in preda all’astinenza, minacciò con un coltello sua madre e suo padre; la storia di Ivan Azazian, armeno, che vive a Gerusalemme perché i suoi genitori hanno deciso di fare ritorno nella loro terra d’origine, dopo una lunga permanenza negli Stati Uniti, e della sua rabbia per trovarsi intrappolato in una situazione da cui vorrebbe scappare, ma non può; la storia di Abdel di Hebron, che dovette attraversare le fogne per poter superare il check point di Gerusalemme e potersi presentare ai provini di Vacis, ma nonostante i suoi sforzi non riuscì a ottenere il permesso di venire in Italia per prendere parte allo spettacolo. È a lui che si deve il sottotitolo: Palestininan Kids Want To See The Sea.

Abdel il mare probabilmente non l’ha ancora visto.

Storie.

Storie raccontate dai protagonisti stessi, attraverso una recitazione straniante e rigorosa, in arabo o in inglese; storie tradotte simultaneamente in scena dalla italo-palestinese Anwar Odeh, soluzione che ha contribuito a enfatizzare l’importanza della narrazione e a focalizzare l’attenzione sui fatti, piuttosto che su facili interpretazioni e sentimentalismi: espediente molto efficace, brechtiano.

Storie non dissimili a quelle che hanno sconvolto Amleto: storie di rabbia, di dubbio, di vendetta, di pazzia.

Nel frattempo, sullo sfondo scorrono immagini che ritraggono i familiari dei ragazzi palestinesi all’interno delle proprie abitazioni: persone tristi, vinte, impaludate nella consuetudine, incapaci di reagire. Negli esterni invece si disegna una Gerusalemme stordita e frammentaria, in cui la tradizione soccombe alle lusinghe della contemporaneità. Nelle sue note di regia, Gabriele Vacis così descrive il suo arrivo all’aeroporto di Tel Aviv “… sembrava di essere a Las Vegas, una città liquida dove possono nascere la paura e i muri…”

Paolini è discreto in scena, accogliente, aiuta i giovani attori a trovare la chiave della propria espressività; è un mentore, attento nel guidarli a essere forti e vigili, a sapersi misurare con l’ambiguità del teatro e della vita, per poi lasciarli liberi di esprimersi. Solo alla fine si prende il palcoscenico e recita una scena dell’Amleto nella traduzione vicentina di Luigi Meneghello.

È un teatro senza trucchi quello di Paolini e Vacis, in cui fa da padrone il rapporto che si riesce a costruire tra l’attore e il pubblico, che può modificarsi di serata in serata, senza indulgere in facili compiacimenti o lasciarsi andare a comode illusioni: il messaggio arriva forte e chiaro.

La scenografia di Roberto Tarasco è geniale: duemila e più bottiglie di plastica, quelle che usiamo tutti i giorni, quelle da un litro e mezzo, senza etichette, trasparenti, bianche, pulite. All’inizio dello spettacolo si trovano in una grande piattaforma a pochi centimetri del palcoscenico, disordinatamente. Durante la prima parte, chi non è coinvolto nell’azione scenica, Paolini compreso, contribuisce a sistemarle per creare una Gerusalemme in miniatura: la Basilica del Santo Sepolcro, il Muro del pianto, la Moschea di Al-Aqsa. Poi la piattaforma si alza e rovescia sugli interpreti migliaia di bottiglie in una sorta di catastrofe, che però, a breve, trova rimedio nella certosina cura degli attori che, se non impegnati a recitare, silenziosamente ricostruiscono nuovamente la città, che sarà demolita poco dopo a calci, con rabbia: una splendida metafora della travagliata vicenda di Gerusalemme, distrutta, e poi ricostruita, e distrutta e ricostruita ancora, così come nel corso dei secoli è accaduto.

Di grande impatto visivo ed emotivo la membrana di plastica che segna il confine tra il boccascena e il pubblico. Gli attori si muovono dietro e davanti alla barriera, in un dialogo di corpi, che emergono, si disegnano e si ritraggono, armoniosamente e con forza insieme. Quella forza che ha convinto Vacis a raccogliere la sfida di lavorare con i ragazzi palestinesi all’inizio di questo progetto. “Essi hanno una straordinaria grazia ed energia che non trovo più negli italiani, che sembrano svuotati. In loro invece c’è un soffio vitale…”

Spettacolo importante e forte nelle intenzioni: le storie aiutano a comprendere la Storia e di certo questa messinscena contribuisce a cogliere il lato umano del conflitto israeliano palestinese, che è non è guerra di popoli o di religioni, ma pesante conseguenza di scelte politiche internazionali.

Le persone sono un’altra cosa.

 

 

Amleto a Gerusalemme Palestinian Kids Want To See The Sea di Gabriele Vacis e Marco Paolini regia Gabriele Vacis con Marco Paolini e con Alaa Abu Gharbieh, Ivan Azazian,

Mohammad Basha, Giuseppe Fabris,vNidal Jouba,

Anwar Odeh, Bahaa Sous, Matteo Volpengo scenofonia, luminismi, stile Roberto Tarasco video e foto di scena Indyca assistente alla regia Marianna Bianchetti prodotto dal Teatro Stabile di Torino – Teatro Nazionale con il patrocinio del Ministero degli Affari Esteri

e della Cooperazione Internazionale