Negli harem di Salonicco

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Jelena Dimitijević, un’inviata davvero speciale negli ultimi anni dell’Impero Ottomano

di Laura Ricci

 

Se è vero che la grande rivoluzione femminista inizia, su vasta scala, con il movimento delle Suffragette e con la formazione della Società Nazionale per il suffragio femminile alla fine del XIX secolo, espandendosi dalla Gran Bretagna per poi affermarsi con pratiche rinnovate e con una propulsione mondiale nella seconda metà del Novecento, è indubbio che le sue teorie e i suoi presupposti si sono sempre nutriti del pensiero e dell’azione di donne straordinarie, sia nell’ambito di quei movimenti più recenti che hanno davvero cambiato il mondo, sia in epoche e contesti più indietro nel tempo: come ad esempio Olympe de Gouges nella Francia rivoluzionaria, o come Mary Wollstonecraft che, negli stessi anni in cui Olympe viene mandata per le sue tesi al patibolo, pubblica con maggiore successo in Inghilterra il suo A Vindication of the Right of Women (1792). Tra tali donne eccellenti possiamo inserire a pieno titolo, e direi con piglio e tratti assolutamente contemporanei, Jelena Dimitrijević (1862-1945), scrittrice, viaggiatrice e femminista fino a pochi mesi fa non ancora tradotta in italiano, di cui è possibile cominciare ad apprezzare la produzione anche nella nostra lingua grazie alla casa editrice Vita Activa di Trieste, che nell’ottobre 2018 ha pubblicato le sue Lettere da Salonicco, con traduzione e cura di Ginevra Pugliese e un’illuminante prefazione di Marija Mitrović. Ed è proprio l’eminente studiosa di Slavistica a evidenziare come Jelena sembri più una donna dei nostri tempi che non del periodo a cavallo tra Ottocento e Novecento in cui è vissuta.

Della sua “curiosità insaziabile” – così Mitrović sintetizza felicemente il costante e irriducibile approccio alla vita di Jelena – parlano i suoi scritti e i suoi viaggi, la sua vasta cultura e il suo plurilinguismo, il suo impegno politico e sociale – fu tra l’altro infermiera durante le guerre dei Balcani – le sue fitte molteplici relazioni e, in definitiva, la sorprendente mobile intensità della sua esistenza.

Jelena Dimitrijević nasce a Kruševac, nella Serbia centrale, dal secondo matrimonio di Stamenka Knez con il ricco commerciante Nikola Miljković. Morto il padre, a nove anni si trasferisce con la madre ad Aleksinac, presso un agiato fratellastro che possiede una nutrita biblioteca grazie alla quale, da curiosa e insaziabile lettrice, si forma come autodidatta un’ampia cultura cosmopolita, mostrando una particolare propensione per le lingue straniere: leggeva, parlava e scriveva, infatti, in inglese e francese, conosceva il tedesco, il greco, l’italiano e il turco, l’idioma dell’impero che aveva dominato la Serbia per quasi cinque secoli. Quest’ultima lingua, che si rivelerà determinante per stabilire relazioni volte alla conoscenza e all’approfondimento di temi che affronterà nella sua scrittura, aveva cominciato a studiarla a Niš, città diventata da turca a serba nel 1878, dove si era trasferita nel 1881 a seguito del suo matrimonio con Jovan Dimitrijević, ufficiale d’artiglieria, anch’egli proprietario di una vasta biblioteca che continuava ad alimentare in ragione della sua accanita passione per la lettura. Anche il rapporto con il marito appare, nella sua vita, anticonvenzionale, paritario e di particolare sintonia, tanto che finché è in vita, è con lui che condivide interessi e curiosità viaggiando verso luoghi dell’ovest e dell’est europeo: in particolare Skopie, Salonicco e Istanbul, per conoscere e comprendere lo spirito della cultura ottomana ed entrare direttamente in contatto, negli harem, con la vita delle donne musulmane, sia turche che islamizzate. Ma da donna avida di conoscenza e autonomamente e fortemente interessata al mondo, continuerà a percorrerlo e a documentarne gli aspetti geografici, culturali e sociali anche dopo la morte di lui e fino in tarda età. Perso il marito, ucciso al fronte nel 1915, viaggia ancora in Francia, Spagna, Inghilterra, America, Siria, Libano, Giappone, Cina e Ceylon, mettendo sempre al centro dei suoi spostamenti e dei suoi scritti i rapporti con le rappresentanti dei movimenti delle donne, e sempre confrontandosi in modo aperto e partecipe con diverse culture e religioni.

Non estranea alla poesia, con cui esordisce nel 1894 con la raccolta Pesme, e ancor più dedita alla narrativa di impronta sociale e di viaggio, è spesso al genere della lettera che Dimitrijević affida la documentazione e la diffusione delle esperienze con cui la sua brillante umanità e la curiosità socio-politica la mettono a contatto. Già nel 1897 aveva pubblicato Pisma iz Niša o haremima (Lettere da Niš sugli harem), e alla lettera sarà ancora affidato il resoconto di altre sue esperienze, con Pisma iz Indije (Lettere dall’India,1928) e Pisma iz Misira (Lettere dall’Egitto, 1929).

Il volume Lettere da Salonicco raccoglie le dieci missive che Jelena indirizzò tra l’agosto e il settembre 1908 all’amica Luisa Jakšić, insegnante presso la Scuola Superiore Femminile di Belgrado, dalla città macedone, fino al 1912 ancora parte dell’impero ottomano. Nel luglio 1908 Jelena era in procinto di partire con il marito verso l’Europa occidentale, ma apprendendo dai giornali che a Salonicco era iniziata la rivoluzione dei Giovani Turchi, e che la democratizzazione stava modificando anche le abitudini delle donne tanto che si erano tolte il velo, cambia prontamente la meta programmata e, insieme al marito, raggiunge la città: urgente e irrinunciabile, per il suo spirito libero e il suo impegno femminista, osservare la situazione senza mediazioni e conoscere dalle dirette interessate quali sono i cambiamenti che la rivoluzione sta determinando nella vita delle donne islamiche. Non è difficile comprendere come per la loro attualità le lettere venissero subito pubblicate a puntate sulla rivista serba Srpski književni glasnik (Messaggero letterario serbo) e nel 1918 a Sarajevo dall’editore I. D. Durđević; si dovranno però attendere non pochi anni perché si torni a questa testimonianza, non solo storica ma di sorprendente contemporaneità, con un’edizione bilingue in serbo e greco (Loznica, Karpos, 2008) e una in lingua inglese (Piscataway, New Jersey, Gorgias Press LLC, 2017). Ora, finalmente fruibili in italiano, queste Lettere da Salonicco testimoniano direttamente anche nella nostra lingua della multiforme e spigliata personalità di questa donna di valore, del suo coinvolgimento documentato e coscienzioso che ha tutti i tratti del migliore giornalismo sociale e di viaggio, e di uno stile di scrittura perfettamente rispondente alla sua indole arguta e curiosa: agile, franco, disinvolto, pronto a penetrare con leggerezza oltre le apparenze e le dichiarazioni ufficiali, ironico e al tempo stesso rispettoso della gravità dei problemi, dei dissidi e delle incertezze che un cambiamento così profondo comporta.

Jelena resterà sei settimane a Salonicco, dove grazie alla sua non comune capacità di relazione e alla conoscenza del turco, oltre a osservare quanto accade politicamente in città, riuscirà a introdursi in alcuni salotti e negli harem. Parlando sia con le musulmane che con le dunmeh – ossia con le donne appartenenti a famiglie ebraiche che hanno assunto gli usi dell’islam senza rinunciare alla fede degli antenati – comprende che non solo è difficile decifrare fino a che punto sono vere e dirimenti le notizie sullo svelamento del capo e del volto, ma che il quadro delle donne islamiche di Salonicco è molto più complesso di quanto si sappia e si dica e, soprattutto, attraversato da fermenti culturali e sociali, da bisogni e da posizioni molteplici che vanno molto al di là dell’adozione o meno degli indumenti tradizionali. La questione vera, infatti, non è il cambiamento delle fogge del vestire, ma quanto possa essere commisurato a una reale libertà. Se sono le dunmhe che per prime si sono tolte il velo e si sono mescolate agli uomini, e le anziane ad apparire più ancorate alla consuetudine, anche tra coloro che Jelena definisce “nuove” vi sono donne aperte e intelligenti – che conoscono la cultura occidentale, parlano francese e seguono gli usi parigini – che sono tuttavia restie a togliere il velo e a ricevere gli uomini nei loro spazi, con la motivazione che i cambiamenti sono politici mentre l’abbigliamento fa parte della tradizione e della religione. Così attraverso le contrastanti conversazioni femminili negli harem, nei salotti e nelle vie, la scrittrice fa emergere il dubbio che le giustificazioni addotte altro non siano che un modo per compiacere il bisogno di dominio maschile, un prudente ancorarsi alla consuetudine mentre nell’animo premono pulsioni ribelli e desideri di una più radicale libertà. “Oh madame, – le dice in strada una donna che indossa il čarčaf di seta nera parlando della progredita ma cauta Dulistan hanuma – anche questa donna istruita, così intelligente, la più liberale delle nostre donne è insincera! […] Non è vero che ci ha rinchiuso la nostra bella fede dei profeti: ci ha rinchiuso l’egoismo dei nostri mariti. Ah madame, i nostri mariti sono gelosi: quel che è loro che nessuno lo veda. […] La rivoluzione dei Giovani Turchi ha le bandiere bianche; la rivoluzione delle Giovani Turche avrà le bandiere insanguinate… […] Non vogliamo più essere prigioniere! E non vogliamo essere per sempre madri dei figli maschi e matrigne delle figlie femmine!”.

Questa dialettica femminile tra conservatorismo islamico e spinte all’occidentalizzazione, di cui Jelena Dimitrijević rende conto attraverso varie testimonianze e le sue personali osservazioni, appare quanto mai interessante e attuale: oggi come allora resta, nella società turca che mai fino in fondo ha digerito la rivoluzione dei Giovani Turchi prima e quella Kemalista poi, una questione ambivalente e aperta, specie considerando la reviviscenza di tradizionalismo islamico dovuta alla politica di governo dell’odierna Turchia.

Al di là del femminismo, è molto interessante anche la descrizione del particolare momento storico vissuto dalla città di Salonicco, nello strabiliante incrocio di culture della città ancora per poco turca, dove la metà dei 150.000 abitanti sono ebrei che convivono pacificamente con musulmani e cristiani e in cui, per le speranze di democrazia e benessere innescate dalla rivoluzione dei Giovani Turchi, sono in atto consistenti migrazioni di Greci e di Bulgari: fatte le dovute distinzioni, aspetto anche questo di sconvolgente modernità. Una ricostruzione storico-sociale, quella di Jelena, conseguita, come nei reportage di ogni ottimo inviato speciale, attraverso fresche, immediate notazioni di storia quotidiana: gli usi di varie e diverse etnie in questa terra balcanica di frontiera, le relazioni familiari e sociali, le eccitate atmosfere cittadine nell’effervescente scorcio di inizio secolo che prelude alla Prima guerra dei Balcani e alla caduta e allo smembramento dell’impero ottomano.

Casa editrice, come ama definirsi, “di scritti di donne e non solo”, di memorie, di pagine di autori e autrici dimenticate o ignorate dalla grande distribuzione editoriale, con questa felice operazione Vita Activa restituisce l’intelligenza di pensiero di una donna, e il suo sguardo libero e penetrante su fatti di notevole interesse e su problematiche di scottante attualità.