Antonioni come Flaubert

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Come Il Ponte rosso, del resto…

 

Raggiungere il sublime attraverso l’ordinario

Se il cinema è scrittura, scrittore e regista possiedono uguali rango e dignità, libro e film analoga complessità e medesima ricchezza di contenuti

di Laura Sasso

 

Il cinema letterario e il valore simbolico dell’immagine.

Se il cinema è scrittura, scrittore e regista possiedono uguali rango e dignità, libro e film analoga complessità e medesima ricchezza di contenuti. Il quantum di valore simbolico veicolato dalle immagini dipende, però, dalla personale intenzione ideativa dell’artista, che abbia in mano penna e calamaio o impegnato dietro la cinepresa.

Michelangelo Antonioni è uno degli esempi più squisiti dell’unione mitica di cineasta e poeta, regista ma anche esperto analista dei sentimenti umani, fenomenologo ossessionato dall’immagine e perfezionista della forma: ogni fotogramma, composto con cura straordinaria, è necessario, mai superfluo o inappropriato, veicolo narrativo fedele alleato dell’idea, con funzione di supporto alla parola quando muta o inadeguata.

“Il neoralismo senza bicicletta” di Antonioni, come egli stesso amava definirlo, analizza l’intero dell’umano esistere, l’eternità e l’immutabilità di una solitudine ontologica quale sua condizione ineludibile. In un mondo chiuso e impenetrabile, assurdo e incomprensibile, angoscia e insicurezza sono entità assolute e atemporali, caratteri costitutivi della vita stessa. La realtà che fugge allo sguardo, all’analisi e al giudizio, mai nitida nei suoi significati, costringe l’uomo a un’assordante incomunicabilità (come se esistesse un’invisibile e invalicabile parete tra l’Io e il mondo, tra l’Io e gli Altri). Antonioni misura con spietata lucidità la distanza tra le persone e le cose. Malgrado i rapporti tra soggetto e oggetto siano esigui e mai sinceri, lo “sfondo”, immagine viva, assume una capillare importanza nella corrispondenza simbolica tra l’uomo e il paesaggio che lo accoglie: scenografie metafisiche di De Chirichiana memoria, teatro degli incontri fatui e incosistenti con gli Altri e dell’incompiutezza inautentica dei gesti umani.

Vanno in scena le inquietudini e le afflizioni dell’uomo moderno, rassegnato alla vuota sterilità e all’appiattimento amorfo generati da un conformismo che tutto ingoia, irritato perché umiliato dal rimorso e dalla sua stessa incapacità di agire: avrebbe potuto, ma non ha fatto – alla presa di coscienza, segue inevitabilmente il disgusto per sé stessi. Non il fluire degli eventi, ma quello del pensiero e delle sue associazioni, non la narrazione delle vicende dell’eroe (ormai del tutto diseroizzato), ma il suo flusso di coscienza, la realtà stessa come contenuto della sua coscienza: le cose del mondo acquistano senso e valore solo nella loro esperienza interiore, come nel miglior Bergman (l’introspezione è il metodo d’indagine assunto come guida dell’espressione). I silenzi, i tempi morti, i dialoghi frammentati e i lunghi piani-sequenza sembrano abolire il senso, a causa della vacuità imperscrutabile del reale che rende inaccessibile un’interpretazione univoca dei fatti e dei comportamenti umani.

L’uomo è solo, assente a sé stesso e straniero agli altri, in balia di sentimenti difficili da comunicare e ancor più da gestire, precari nella loro essenza e nella loro durata, sempre reversibili: basta poco per cambiare e ancora meno per dimenticare (come ne L’avventura). Nel rifiuto dell’evento drammatico tradizionalmente inteso, lo sguardo si sofferma più sugli effetti degli eventi che non sugli stessi, ritrovandovi la medesima discontinuità del fluire dell’esistenza, antitetico alla logica della causalità e della prevedibilità coerente delle azioni. È la definitiva rottura con ogni modello della narrazione classica.

L’Educazione sentimentale di Flaubert, eccezionale sperimentazione verbale, narrazione disordinata e apparentemente casuale, manifesta la stessa dedizione nel cercare di scalfire la misteriosa materia delle passioni umane, una lenta penetrazione della coscienza nelle cose del mondo, segnalandone anche le più infime trasformazioni. Flaubert sceglie il profilo del narratore impassibile quando decide di voler scrivere la storia morale degli uomini della sua generazione, un libro che parla di passioni inattive, quali soltanto potevano essere secondo l’autore (anche Antonioni fa del “neutralismo estetico” il proprio marchio inconfondibile: non giudice dei suoi personaggi ma solo testimone appassionato). Non vi è progressione drammatica, non una vera e propria trama, ma solo una serie di quadri, frammenti di azioni e di parole troncate.

Flaubert voleva la vita così come essa si presenta giorno per giorno, nel suo continuo succedersi di insignificanti incidenti volgari, un trantràn ordinario di eventi e personaggi che si incontrano, si perdono, si ritrovano. L’intento era quello di riuscire a fare arte a partire dall’insignificante e dall’ovvio, dalla falsità dei luoghi comuni e dalla mediocrità che si nutre di stereotipi, raggiungere il sublime attraverso ciò che è privo di qualsivoglia segno di grandezza: scrivere la vita ordinaria allo stesso modo di come si scrive l’epopea.

Ne risultò un articolato e raffinato sistema di relazioni che coinvolge tutti i piani del testo, da quello dei personaggi a quello degli eventi, da quello delle situazioni individuali a quello dei fatti storici, milieu onnipresente come scenario delle prime: come in Antonioni, sfondo e personaggi, liberi da rapporti reciproci di causa ed effetto, risultano relazionati fra loro da precise corrispondenze. L’impossibilità di stabilire un rapporto sincero con il mondo e con gli Altri (perché l’identità si definisce solo nel confronto con altro da sè), rende l’uomo spettatore inerte e ammutolito della propria e dell’altrui agonia (come ne La notte Giovanni assiste indifferente alle sofferenze dell’amico Tommaso).

La noia come sintomo della crisi della società borghese: i rispettivi ambienti sociali (la borghesia parigina di fine ‘800 di Flaubert e quella milanese degli anni ’60/’70 di Antonioni) sono mondi aridi e frivoli, fatti di party e colazioni sull’erba, abitati da sonnambuli e marionette in parata. Uomini annoiati, più simili a spettri, che vivono il tempo senza essere nel tempo. La graduale perdita delle illusioni, nella costante tensione tra un reale insondabile e un ideale mai raggiungibile, brama divorante e insieme profonda letargia, tradisce gli stessi sogni perché ne smaschera l’intrinseca inerzia (il Frédéric Moreau di Flaubert è l’esempio più calzante: la sua oscillazione perenne tra un’indecisa azione e una pigrizia voluttuosa esprime l’impossibilità della ri-composizione tra reale e ideale).

L’arrendevole capitolazione alla solitudine e all’incomunicabilità conduce all’isolamento e alla frattura interiore: in un universo privo di luci e illusioni si finisce con l’accettare pure le menzogne e i malintesi. L’esistenza perde il suo valore di realtà e diviene mera possibilità. Eppure, è proprio qui insita l’occasione salvifica del suo riscatto. Perchè il riconoscimento consapevole del carattere finito dell’esistenza e della vanità di ogni sforzo umano non pongono fine alla coraggiosa ricerca di un contatto, con il mondo e con gli Altri, sincero, autentico e pregno di senso. L’abolizione del senso è in effetti una sua apertura illimitata: non un solo senso, ma una pluralità di sensi sempre possibili – tutto potrebbe accadere, anche se poi nulla dovesse realmente accadere. È un invito ad instaurare, con gli Altri e ancor prima con noi stessi, un dialogo più vero, intenso, autentico. Si tratta, d’altronde, delle domande eternamente irrisolte e degli enigmi ancestrali dell’animo umano, sublimati in un contenuto unitario, miracolo della genesi della Forma compiuto dall’arte visionaria.

Alla fatale domanda su come vivere continueremo probabilmente a rispondere con un impietrito e imbarazzato “non so”, continueremo probabilmente a inorridire dinanzi lo spettacolo agghiacciante dell’ovvietà del mostruoso (come diceva Adorno), ma saremmo ancora in grado di riflessioni critiche e consapevoli, senza rassegnazione perché certi che l’avventura non si è ancora conclusa.