Borges, il tempo e l’eternità

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Omaggio al grande argentino a 120 anni dalla nascita

di Graziella Atzori

 

Nel ricordare Jorge Luis Borges, compendio enciclopedico di tradizioni culturali d’ogni tempo e luogo, il pensiero corre immediatamente ad alcune parole chiave che ne svelano la poetica: innanzi tutto la biblioteca di Babele, immagine del cosmo; quindi il labirinto, la tigre e il gatto, il tempo, la memoria e l’oblio, l’Io immarcescibile e Nessuno, il tango, i coltelli, la spada, i teologi e gli eresiarchi, il sogno, gli specchi che moltiplicano il male, l’amore e la luna, Buenos Aires, la mitologia, il coraggio pampero, la cecità, il fantastico superiore al reale che è sabbia e illusione, la Storia come plagio, la poesia “luogo” dell’eterno.

Tale amalgama costituisce la sua cifra e popola la corposa produzione letteraria dell’artista in versi e in prosa, sintetica, (non scrisse mai un romanzo, similmente a Chopin, che non scrisse mai una sinfonia), concentrata come un elisir e limpida come un cristallo, emotiva con discrezione elegante, capace di lasciare un tremito, una domanda sospesa a cui ciascuno può dare o tentare di fornire una risposta.

Le metafore di Borges sono tutte intercambiabili, simboli di un tema fondamentale: il rapporto del singolo con pan, il tutto, del finito con l’infinito.

È lo scrittore metafisico per antonomasia del Novecento.

Nel celebrare i centoventi anni dalla sua nascita e prima di tentare un approccio alle sue tematiche (spero di farlo con brevi lampi illuminanti), sono da sottolineare alcuni tratti biografici che lo caratterizzano. Primo fra tutti la modestia. Dopo la vendita della casa del padre, lo scrittore non volle mai possedere una villa, un appartamento per vivere gli bastò. Coerente con quanto scrive in una lirica di forte sapore etico, L’Angelo, l’Altro in noi: L’uomo non sia indegno dell’Angelo […] Non lo trascini […] ai palazzi che eresse la superbia/ […] l’Altro lo osserva./ Ricordi che non sarà mai solo.

Altre sue prerogative sono state la semplicità, la capacità di andare dritto al sodo. Durante lo svolgimento degli esami all’Università di Buenos Aires, dove insegnò Letteratura inglese per dodici anni, dal 1956, chiedeva agli studenti di esporre un argomento a piacere, specificando che le date non gli interessavano. Gli venne affibbiato con affetto un soprannome: unicorno, allusione all’unicità e straordinarietà.

Su di lui, Leonardo Sciascia ha cucito l’appellativo di “teologo ateo”, ma credo che Borges non possa essere rinchiuso in tale formula. Il termine “ateo” non ricorre nei suoi testi. Egli è il prototipo dello gnostico, abbraccia l’esistenza comprensiva di tutti i contrari che si toccano, per formare l’unicum, inspiegabile dalla ragione non illuminata dall’intuizione epifanica. La sua rosa è sia il fiore profumato nelle mani di Attar di Nishapur in Persia, sia la rosa profonda trascendente e infinita, non riferibile al nome “rosa” (Umberto Eco nega questa realtà mistica). Magnifici i versi conclusivi di The Unending rose: Ogni cosa/ È infinità di cose. Sei musica,/ Firmamenti, palazzi, fiumi, angeli,/ Rosa profonda, illimitata, intima,/ Che Dio indicherà ai miei occhi morti. Il mondo, per Borges come per James Joyce, è Proteo.

Lontano dal nominalismo, Borges simpatizza per Gianbattista Vico, ne condivide la circolarità del tempo e i suoi corsi e ricorsi sia ne Le rovine circolari sia nel racconto L’immortale. Le sue aporie ci mostrano il tempo come fiume che scorre, (Eraclito è un protagonista delle liriche) la cui acqua è destinata all’oblio ma insieme, nel corpus dell’opera omnia, il grande argentino sottolinea la contemporaneità di ogni evento, tema centrale de L’aleph, la prima lettera dell’alfabeto ebraico in cui si condensano i vissuti di passato presente futuro. Aleph onnicomprensivo: multum in parvo, il tutto nella parte. Ritroviamo la stessa concezione nel racconto giallo Il giardino dei sentieri che si biforcano nel quale l’assassino, in un sentiero diverso da quello in cui si consuma il delitto, è amico dell’ucciso.

Nella visione panica totale sembrerebbe che il bene e il male, raggiunta una compensazione, siano insignificanti nella vita del singolo, ma è il contrario. Nella poesia già citata il poeta conclude con i versi: Signore, alla fine dei miei giorni sulla Terra / non abbia offeso l’Angelo. Ne I giusti, gli preme sottolineare che sta salvando il mondo, tra gli altri, Chi accarezza un animale addormentato./ Chi giustifica o vuole giustificare un male che gli hanno fatto.

Nel caos apparente dell’universo esiste una teleologia inconoscibile, sebbene spesso Borges nomini la cecità del destino. Ci abitua alle cotraddizioni che sono tali solo per lo sguardo superficiale. in L’accostamento ad Almotasim uno studente di Bombay incredulo e fuggiasco, ricerca per decenni il personaggio misterioso che porta questo nome. Almotasim è l’incarnazione della Bellezza (“specchio della verità” secondo Platone) diffusa nel creato per gradi, lasciata in parte negli enti come grazia, adescamento irresistibile. Il riferimento è ancora ai neoplatonici e agli gnostici, per i quali la redenzione si attua tramite la conoscenza e l’esperienza, comprendente bene e male, la giustizia e l’errore.

Mi sorge un raffronto con Goethe: anche Faust vive per conoscere e per desiderare e poter dire Fermati, attimo, sei bello! Ma Faust non lo dirà, nulla per lui nel mondo materiale iliaco è degno di tanto. Il Nostro si spinge oltre, la sua redenzione è qui, addirittura nascosta nel dozzinale. Almotasim, la Bellezza personificata, verrà raggiunta dopo alterne e crudeli vicissitudini: Almotasim è l’emblema di Dio, e i puntuali itinerari del protagonista corrispondono scopertamente ai progressi di un’anima nell’ascesa mistica. Come e dove lo studente troverà l’essere sacro della sua ricerca? In poche frasi asciutte che esprimono il culmine della tensione: Dopo lunghi anni lo studente giunge a una galleria, in fondo alla quale è una porta; e «da quella porta, attraverso una tenda a perline da pochi soldi, filtrava uno splendore». Lo studente batte due volte le mani, chiede di Almotasim. Una voce d’uomo – l’incredibile voce di Almotasim – lo invita a entrare. Lo studente scosta la tenda e avanza.

Notiamo la simbologia della galleria, identica a quella del labirinto; la tenda da pochi soldi, come il velo illusorio di maya, rappresenta le vicende di ogni giorno, di poco valore, dietro o sotto le quali sta la substantia divina splendente. Si tratta di messaggi che parlano al cuore, al nostro stato di indigente ignoranza, al bisogno di sapere.

Non si finisce di esplorare lo scrittore carico di sorprese e mistero. Riguardo al tema dell’identità, splendida è la sua metafora delle strade, contenuta nella prima poesia della silloge Fervore di Buenos Aires: Sono per il solitario una promessa/ perché migliaia di anime singole le popolano,/ uniche davanti a Dio e nel tempo/ e senza dubbio preziose./ Verso l’Ovest, il Nord e il Sud/ si sono distese – e sono anche la patria – le strade:/ Dio voglia che nei versi che traccio/ ci siano quelle bandiere.

Aggiungo una parola sull’importanza della Parola, simbolo, non segno: la parola (in special modo quella poetica) coincide con la cosa, con tutte le implicazioni che una cosa porta in sé. Vale la pena quindi ricercare una parola, spendere la vita nello scopo. Tale è il cuore dell’apologo Undr, parola sacra che può essere sostituita con qualsiasi altra di uguale pregnanza. A ciascuno la sua. In islandese Undr significa meraviglia. Borges la sceglie per l’affinità con wonder in inglese e Wunder in tedesco.

La meraviglia credo sia il finale di Molly ne L’Ulisse di Joyce. A lui Borges ha dedicato due poesie.

 

 

Tutte le citazioni sono tratte da Borges – Tutte le opere, a cura di Domenico Porzio, i Meridiani, Mondadori, Milano 1989. Quelle relative a L’accostamento ad Almotasim, contenuto in Finzioni, traduzione di Franco Lucentini, Einaudi, Torino, 1985.