Il 1922 di Mondini

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Un saggio di Marco Mondini sulla presa di potere dei fascisti del 1922

di Fulvio Senardi

 

Il nome di Marco Mondini è ben noto a chi si è occupato di Grande Guerra, un tema al quale ha contribuito nel 2014 con un volume significativo, La guerra italiana. Partire, raccontare, tornare 1914-1918. Ma il libro di cui qui ci occupiamo ha un baricentro in parte diverso: si tratta infatti di Roma 1922. Il fascismo e la guerra mai finita (il Mulino, 2022). Nel cui titolo si allude, con indiscutibile evidenza, ad un evento, la Marcia su Roma, reso assolutamente attuale dal nuovo ingresso nei palazzi del potere da parte di chi si richiama al movimento eversivo che si impadronì dello Stato cento anni fa, e lo fa con un’impudenza (l’“orgoglio missino” proclamato dalla Presidente del Consiglio) che ferisce chi si riconosce nella Costituzione antifascista. Del resto conosciamo bene le difficoltà dell’Italia nel fare i conti con un passato ingombrante, coloniale, dittatoriale, militarista, razzista (solo cose di ieri?) Viene da dire, con Carducci, ma trasformando il senso della sua esclamazione, «la nostra patria è vile». Apriamo i giornali: se in qualche paesino del Lazio una via si dedica ad Italo Balbo, o viene eretto un monumento al criminale di guerra Rodolfo Graziani, in risposta c’è solo il clamoroso silenzio di quei “garanti della Costituzione” il cui compito sarebbe di denunciare, la bizzarra miopia della magistratura, l’assenteismo della forza pubblica. Disattenzione che tuttavia non stupisce chi sa quanto sia debole lo Stato sul piano della legalità e dei diritti, nonostante i tonitruanti pistolotti “costituzionalisti” dei suoi rappresentanti ufficiali nelle pubbliche occasioni (con le loro varie declinazioni: “moniti”, “richiami”, “inviti”, ad altre formule del magazzino dell’inutile). È il «clima di rilassamento spaventoso» di cui ha parlato qualche tempo fa Edith Bruck in un’intervista sui giornali; clima che ha però una lunga storia, coincidente con l’intero percorso dell’Italia repubblicana, nata dalla Resistenza (… e dall’amnistia Togliatti).

Mondini mette abilmente a fuoco – con un’indagine approfondita e concentrica che si avvale anche dell’elegante stile discorsivo al quale ci hanno abituato, prendendo esempio dalla saggistica anglosassone, gli storici delle giovani generazioni – il concomitante gioco di forze, pulsioni ideologiche, strappi istituzionali che hanno reso possibile che un’«organizzazione di entusiasti dilettanti» (197), tutta crepe e sbavature, impegnata in una maldestra operazione di massa pensata innanzitutto come «clamorosa, roboante messa in scena» (207), potesse piegare lo Stato liberale, mettendo fine alla giovane tradizione democratica italiana. Nei suoi otto capitoli la ricerca apre illuminanti prospettive su una realtà storica complessa, che viene indagata facendo tesoro del ricchissimo, ormai, bagaglio di monografie che approfondiscono i temi e i problemi del dopoguerra italiano, prendendo in esame le voci della memorialistica ed escutendo fonti d’archivio, come a ricordarci che fare storia non significa solo ricomporre in nuovi intriganti puzzle materiali già a disposizione. Consigliandone la lettura, mi limiterò a mettere in rilievo alcuni punti fondamentali dell’analisi dello storico padovano che apre il discorso, com’era da attendersi, partendo dalla guerra (che «nella maggior parte dei grandi affreschi sulle origini del fascismo […] è un convitato di pietra», con scarsa comprensione del suo «poderoso impatto sull’immaginario degli europei» – 13). Quella guerra che, vinta, lasciò tuttavia l’amaro in bocca a molti combattenti, in ispecie tra le file dell’ufficialità di complemento, suscitando l’impressione che il Paese si vergognasse dei suoi soldati e volesse mettere la sordina al giubilo per la vittoria sul campo (ricordiamo che nelle elezioni del 1919, le prime tenute col metodo proporzionale, trionfarono il partito socialista: PSI, e quello cattolico: PPI, espressioni di ideologie e di sensibilità che, con un vocabolo d’anteguerra, non sarebbe errato definire “neutraliste”); rinunciando, per sopraggiunta a mietere i giusti frutti del sacrificio militare, ovvero ciò che era stato promesso con il Patto di Londra (e che Wilson, il grande arbitro della pace, contestava in nome del principio di nazionalità).

Siamo al mito della “vittoria mutilata”, grazie al quale l’immaginifico poeta-soldato, astuto inventore di slogan, riconquista piena visibilità. E non solo con trascinanti parole d’ordine, ma in virtù della più clamorosa sedizione militare dell’Europa di allora, la conquista di Fiume, un evento che ebbe inizio con la “santa entrata” del 12 settembre 1919 e fece della città adriatica, dal 1920, “Reggenza italiana del Carnaro” (e non “Repubblica del Carnaro”, come ha scritto Stefano Folli su «Repubblica» il 24 gennaio – giornalisti, vi esorto allo studio!), «il laboratorio di una rimobilitazione patriottica che prendeva la forma della guerra civile» (46). Iniziativa animata da «veterani del fronte, pluridecorati e con una esperienza di preparazione di corpi paramilitari […], in prima linea nel rigettare qualsiasi compromesso, nell’aizzare i ‘legionari’ a continuare sulla strada delle azioni violente e illegali anche fuori dai confini della città e nel rivendicare una ‘marcia su Roma’ come atto conclusivo di una rivolta antiparlamentare nel migliore stile dell’‘arditismo’» (53-4).

Sono peraltro gli anni della «grande paura» per i ceti possidenti, il cosiddetto “biennio rosso”: i congedati chiedevano di essere reintegrati nella società del lavoro e con ruoli non solo gregari (si pensi all’episodio dell’occupazione delle fabbriche, con la sua ambigua natura politico-sindacale), se contadini la concessione di terre da coltivare togliendole al latifondo, mentre intanto il carovita mordeva alla gola le classi proletarie e il ceto medio, e gli ufficiali di complemento smobilitati costituivano una massa inquieta che soffriva per la perdita di prestigio e stipendio. Di fronte a tutto ciò il Partito Socialista, primo partito in Parlamento nel 1919, assumeva l’«inquietante immagine di quinta colonna della rivoluzione» (66), anche perché egemonizzato dalla corrente massimalista che aveva aderito alla Terza internazionale. Lo spettro della rivoluzione e del comunismo cominciava già da allora ad aleggiare su un Paese dagli intoccabili privilegi di classe. In tanto scompiglio si affaccia nella vita sociale italiana un nuovo inquietante protagonista, le squadre di volontari armati a tutela di ordine e proprietà, orgoglio nazionale e valori della Vittoria. Cosa non del tutto inusitata ricorda Mondini, sottolineando però che nel 1919, per effetto della «psicosi rivoluzionaria», «il governo istruì i suoi rappresentanti sulla necessità di organizzare una leva di privati cittadini, ideologicamente affidabili e con esperienza di combattimento da impiegare in azioni di repressione anti-insurrezionale su scala nazionale» (78). Si venne dunque, ed è questa una nota costante dell’intero volume, «al primo incontro formale tra il neonato fascismo e le istituzioni pubbliche». Esito per certi aspetti paradossale, se si considera il fatto che – Mondini è particolarmente chiaro su questo punto – nel «movimento fascista andava senz’altro riconosciuto» il maggior colpevole «del progressivo sgretolamento dell’autorevolezza del governo centrale e della sua capacità di controllo del territorio», 138 (sconvolgente, specie per il 1922, l’elenco di spedizioni delle squadre in camicia nera alla conquista di città rette da amministrazioni di sinistra, con uno strascico di devastazioni e di morti, e perfino obbligando il Governo a rimuovere, in certe località: Cremona, per es., dei prefetti sgraditi perché troppo ligi alla legalità).

In un accavallarsi di eventi che si succedono tumultuosamente tra il ’19 e il ’22, mentre si estremizzano i discorsi e le forme dello scontro politico-sociale, si stringono i nodi tra esercito, se non connivente di solito “neutrale”, e violenza di classe, tanto che nel settembre del 1920 una circolare riservata del Capo Uffici informazioni dello Stato maggiore dell’Esercito presentava i Fasci di combattimento come «forze vive da contrapporre agli elementi antinazionali e sovversivi» (95). Muovendosi nel solco di una sua precedente, importante ricerca (La politica delle armi. Il ruolo dell’esercito nell’avvento del fascismo, 2006) Mondini traccia una panoramica sconvolgente dove la debolezza e l’inettitudine dell’Italia politica del Dopoguerra (anche a casa del PSI dove si faceva, con effetti controproducenti sul complessivo quadro politico-istituzionale, la faccia feroce) si intreccia alla violenza di moti squadristici sempre più brutali e socio-politicamente orientati in funzione anti-socialista ed anti-popolare (i coscritti del Piave erano ridiventati la “canaglia” da rimettere al proprio posto), sull’orizzonte di una «politicizzazione ormai dilagante tra i vertici delle Forze armate, che alle disposizioni governative [che chiedevano si ponesse un freno alla violenza, FS] si chinavano solo nella misura in cui le ritenevano convenienti, per la propria posizione pubblica e per la propria visione dello Stato» (181). Anche nei giorni che prepararono la “marcia”, «il comportamento dei comandanti dell’Esercito oscillò […] tra la scoperta complicità e, più frequentemente, la prudente inerzia di chi attendeva un esito non solo inevitabile, ma auspicabile» (213). Per rifarsi al detto famoso di un politico francese, che la guerra è cosa troppo seria per lasciarla ai militari, figuriamoci dunque la pace!

Non pochi politici e intellettuali osservavano perplessi, vedendo nella svolta in camicia nera la sola possibilità di uscire dal caos per rientrare nell’ordine di una convivenza nuovamente civile; per esempio, inaspettatamente, un Gaetano Salvemini che annotò, «meglio Mussolini che Bonomi, Facta, Orlando, Turati». Se c’è una critica  da fare al bel libro di Mondini è quella non considerare nemmeno per accenno – nella felice concentrazione d’analisi sul ’22 traguardato rispetto a una «guerra mai finita» e con il suo particolare accento sull’ordito sempre più fitto di connivenze tra squadrismo, esercito e poteri dello Stato – il posizionamento degli altri “poteri forti” dell’Italia di allora, in maniera da offrire, in prospettiva  multifattoriale, un quadro veramente completo. E i padroni del capitale, industriali o agrari che fossero? E la Chiesa? E il Sovrano? È appena a p. 200, salvo un fuggevole accenno a p. 12, che il lettore viene informato che in Italia c’è un re, restandogli comunque oscure le ragioni del suo rifiuto di firmare il decreto dello Stato d’assedio (e qui sarebbe bastata una nota per aprire uno spiraglio di chiarezza). Chi dicesse, anticipo l’obiezione, che sono cose che tutti sanno, non ha mai assistito a un esame di storia in una Facoltà umanistica (non parliamo degli esami di Maturità…). Comunque, ribadisco, un libro da leggere con giovamento, piacere (per la scorrevole scrittura) e legittima amarezza (nella nostra coscienza di cittadini italiani).

 

 

Marco Mondini

Roma 1922. Il fascismo

e la guerra mai finita

il Mulino, 2022

  1. 287, euro 22,00