Gli anni oscuri di Pahor

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Finalmente in italiano Oscuramento, nella traduzione dallo sloveno di Martina Clerici

di Fulvio Senardi

 

Un nuovo passo importante per la fruizione e la comprensione dell’opera di Boris Pahor, il maggior scrittore triestino vivente, viene reso possibile dalla traduzione, come al solito elegante, di Martina Clerici, di Oscuramento (Zatemnitev), romanzo fino ad oggi leggibile solo nella lingua originale, lo sloveno, e in traduzione francese. Colpisce questo lento “sgocciolamento” delle opere di Pahor dallo sloveno in un mondo di lingua e di cultura, quello italiano, così pronto a lanciare sul mercato tutto ciò che arriva di nuovo (e meglio se è “di consumo”) dall’universo anglosassone e francofono (un po’ meno dai Paesi di lingua tedesca). Colpa della barriera della lingua? Possibile in un Paese in cui vivono almeno 50.000 sloveni autoctoni (nelle province, anzi, ex-province di Trieste, Gorizia e Udine), che parlano perfettamente l’italiano ed è attiva una schiera di validissimi traduttori (le cenerentole ahimè della filiera editoriale)? Non sarà che resiste coriaceo un atteggiamento di superiorità e di disinteresse verso un piccolo popolo, a oriente dello Stivale, esemplare però per l’importanza assegnata alla lingua e alla letteratura?

Sia che quel che sia, questo romanzo, finalmente pubblicato presso La nave di Teseo (Oscuramento, I edizione slovena nel 1975), chiarisce ancor meglio dei libri precedenti, e con un passo narrativo particolarmente agile (salvo per qualche capitolo focalizzato sull’amore), la complessità e la durezza della posizione di un giovane sloveno nell’Italia intollerante e presto genocidaria del Fascismo nella fase del suo inglorioso epilogo militare, al servizio, per chi ancora si ostinava a portare la camicia nera, del boia tedesco. Narrando di Radko Suban, personaggio palesemente autobiografico, Pahor racconta una fase cruciale della propria vita che, nella vicenda del suo alter ego, matura in tre direzioni parallele, andando a costituire le tre facce di un compatto e avvincente Bildungsroman, che snoda e annoda, con felice esito romanzesco, i suoi fili d’intreccio, distribuendoli in due sezioni compatte di luce e di ombra, una prima parte che racconta l’incontro e l’amore, una seconda che narra di prigionia e separazione, dal cielo di Venere, insomma, ai tormenti dell’inferno nazista.

Ma vediamo con ordine questa fisionomia tripolare: a prevalere è certo il tema della crescita sentimentale (anche perché giustifica, lo si capisce nell’epilogo, la scelta di narrare della propria vita quasi in forma di resoconto di un sogno svanito). Assistiamo così alla crisi di un inesperto seminarista – incuriosito però dall’universo femminile e reso dubbioso, rispetto a un percorso di vita già in apparenza determinato, dal turbamento che gli provocano i suoi contatti con l’altro sesso – che scopre l’amore nella forma dell’Eros, e vi si dà tutto con quell’assolutezza ed abbandono che contraddistingue le esperienze giovanili. Piaceri del corpo e dell’anima assaporati sull’orizzonte di una crescente intesa umana, culturale, politica con la giovane Mija. Che matura anch’essa grazie a questa relazione perdendo, a beneficio di una coscienza più sobria del suo essere donna, certe pose svenevoli di ragazza ricca. Non mancano i sensi di colpa: Mija – la cui identità storica non chiariremo, trasparente per gli sloveni di Trieste e per tutti gli italiani che abbiano letto Gli sposi di via Rossetti di Fulvio Tomizza – è sposata a un intellettuale che langue in una prigione italiana. Come spesso nella narrativa medievale l’amore più intenso e autentico è quello proibito, situazione resa ancora più complessa dal fatto che tutto avviene all’interno del piccolo mondo sloveno di Trieste, una comunità che ha vissuto, sotto il fascismo, la fase più dura della sua storia, e nella quale una relazione del genere può facilmente seminare devastanti germi di discordia. «“Ci siamo incontrati all’incrocio dei nostri rispettivi cammini” bisbigliò Radko, “ciascuno di noi due sa da dove proviene, ma nessuno di noi due sa dov’è diretto”. Mija si protese per posargli un bacio sulla fronte. “Però facciamo la strada insieme”, disse. “Insieme a tal punto che spesso mi domando se siamo reali”. Lei si scostò per poterlo guardare negli occhi: “Come ieri sera, quando hai spento la luce. Era un giochino puerile, ma è stata un’emozione meravigliosa, trionfale.” “Nell’oscurità dentro l’oscuramento ha brillato per noi la più luminosa delle luci.” Tacque un istante, quindi mormorò: “Forse non ci serve nient’altro di più sacro”. “Radko”, gli fece eco lei, “il mio cuore ha provato lo stesso sentimento”».

C’è poi il tema politico: Radko è uno degli sbandati del ’43 e, liberatosi dell’odiata divisa italiana, ritorna a Trieste, la sua città. Metto in evidenza il possessivo per sottolineare l’aspetto tragico e straordinario della storia triestina, il senso di appartenenza che tre comunità, l’italiana, la slovena e l’austriaca di lingua tedesca hanno provato per la “città nel golfo” (per dire con il titolo di un romanzo pahoriano di cui si consiglia caldamente la lettura), considerandola propria e pronti a negare all’Altro il diritto di sentirsi a casa, con tutte le implicazioni giuridiche, politiche, culturali, ecc. (nel corso del “secolo breve” l’antagonismo si semplifica ma si incattivisce: il braccio di ferro si svolge allora tra italiani e sloveni). Così Radko, in una pagina cruciale del romanzo: «uscì e si diresse sulle Rive per tastare il polso della città, per rendersi conto di quanto fossero antiche le sue fondamenta e di quanto invece effimero tutto ciò che nelle varie epoche era transitato per le sue vie. […] Il suo bisogno di intesa con il mare aveva, forse, del romantico; ma assomigliava di più all’urgenza archetipica di venerare un totem atavico, di affidarsi al potente feticcio che, con placido respiro, vegliava sulla città e sul suo destino». Ritrovate, ricongiungendosi alla famiglia, le proprie radici Radko è costretto a confrontarsi con il mondo sloveno in ebollizione nella città occupata dai tedeschi: gli sloveni organizzano reti di propaganda anti-nazista in appoggio al movimento partigiano jugoslavo, ma vi sono anche coloro, di inclinazione cattolica o monarchica, che collaborano con l’occupante, in odio agli italiani e al comunismo, e perfino nel campo della resistenza le cose non sono facili perché il partito comunista jugoslavo ambisce al ruolo di forza egemone, riconosciutogli controvoglia dai resistenti di diversa appartenenza ideologica: «Il Fronte di liberazione siamo noi, noi tutti, rifletté Radko Suban, se poi i marxisti cercheranno di imporci la loro visione, provvederemo ad aggiustare il tiro modificando il nostro modo di rapportarci a loro». Dopo la cattura da parte dei collaborazionisti inizia per Radko la tormentosa via crucis – interrogatori, detenzione, tortura – che lo condurrà al lager.

Il libro si chiude comunque su una nota malinconica, ma non tragica, toccando, malandrino, il tasto del vagheggiamento intenerito: dentro un presente ridivenuto oscuro Radko si abbandona all’onda del ricordo per trovare la forza per continuare a vivere, cedendo a una salvifica, ancorché dolorosa, elaborazione del lutto che prende appunto la forma del romanzo che leggiamo. Sopravvissuto ai campi della morte come un «Lazzaro risorto», Radko apprende, al ritorno, la notizia dell’assassinio di Mija e decide di scrivere «parola dopo parola la loro storia, una storia travagliata e senza lieto fine». La penna scorre veloce e come sotto dettatura dell’intimo sgomento, ma «non poche volte si trovò in difficoltà. […] Quando accadeva, Mija si sedeva sul bordo della solida scrivania e gli avvicinava alle labbra la propria tazzina di caffè avendo lui già svuotato la sua». «Parola dopo parola»: il sofferto miracolo della scrittura, appunto, che consolida una vocazione, in relazione alla quale  si individua, in senso diremo meta-letterario, il terzo filone del romanzo.

Grazie al rapporto con Mija, e avvalendosi della sua ricca biblioteca di casa, Radko-Pahor, nutritosi soprattutto di letteratura slovena (Kosovel, Župančič, ecc., ma in primo luogo Cankar, da cui trae utili suggerimenti per un’analisi del presente e del futuro degli sloveni nel Litorale, l’italiana Venezia Giulia), scopre qualche autore del Nord (lo Hamsun di Pan e del Cerchio si chiude, tradotto per Mondadori nel 1939, un autore indubbiamente esemplare per il gusto della natura e la capacità di proporre dei personaggi di individualismo stralunato, in aspra lotta contro il mondo intero), ma soprattutto la forza della letteratura americana, con la stessa scossa di rivelazione, dobbiamo pensare, che aveva colto i lettori (e i giovani scrittori) italiani, conquistati da quella particolare «letteratura universale a una lingua sola», come scriveva Vittorini nel 1937; da essa Pahor trae non pochi spunti per elaborare uno stile di realismo robusto e risentito, di approccio diretto e ruvido alla materia, ma insieme capace di suggestive metaforizzazioni e di repentini intenerimenti (vi sarà poi un successivo “raddrizzamento”, a partire dall’anno parigino, nel contatto più intenso con la letteratura francese).

Ben al di qua del romanzo-saggio Oscuramento lascia tuttavia scivolare dei nomi assai rivelatori (anche relativamente alla letteratura italiana: Pirandello):  Dos Passos, di cui si poteva leggere in italiano, già dalla fine degli anni Trenta, Un mucchio di quattrini, nella traduzione di Cesare Pavese, e prima ancora Nuova York (Manhattan Transfer) e Quarantaduesimo parallelo ancora tradotto da Pavese, e Steinbeck, di cui Vittorini traduce per Bombiani Pian della Tortilla  e per la Medusa di Mondadori I pascoli del cielo (1940), mentre una versione di Furore (The Grapes of Wrath), molto edulcorata (quanto alla denuncia della crisi sociale e alle scelte espressive) esce nel 1940, nella traduzione di Carlo Coardi per Bompiani, ottenendo un successo di pubblico enorme per quei tempi (sei ristampe con 40.000 copie vendute) e restando per più di settant’anni l’unica versione a disposizione del lettore italiano. È qui indubbiamente una delle frequentazioni in cui si forgiano, con un processo assai lento, gli strumenti del futuro scrittore sloveno, e, al tempo stesso, una sorta di minimo risarcimento da parte della cultura italiana, che si faceva veicolo di un importante ampliamento di orizzonti, di quella violenza che l’Italia (e peggio il Fascismo) aveva esercitato, a partire dal 1918, sugli sloveni compresi nei suoi confini.

 

 

Boris Pahor

Oscuramento

traduzione di Martina Clerini

La Nave di Teseo, Milano 2022

  1. 476, euro 21,00