Le serene disperazioni di Arturo Nathan

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Lettere all’amico Carlo Sbisà (1940-1943)

di Maurizio Lorber

 

 

L’architetto Adolf Loos scrisse che se di una civiltà scomparsa rimanesse soltanto un bottone gli sarebbe stato possibile risalire dalla sua forma non solo al tipo di abbigliamento ma finanche agli usi, i costumi, la religione e l’arte. Si trattava di una boutade provocatoria. Niente ci consente di comprendere in maniera esaustiva un’epoca passata e proprio i manufatti – quadri, sestanti, sculture, navi… – celano agli storici più misteri sul passato di quanti ne risolvano. Al contrario tutti i prodotti letterari, anche i più banali, e gli epistolari in particolare, possono invece permetterci uno sguardo ben più profondo sul mondo di ieri e sulla dimensione interiore degli uomini. È quanto accade con la collazione di lettere di Arturo Nathan a Carlo Sbisà che, seppure parziale, rappresenta una parte significativa della corrispondenza fra i due artisti triestini (due cartoline e cinquantaquattro lettere) intrattenuta fra il 1940 e il 1943 della quale ci rimane purtroppo soltanto quella scritta da Arturo Nathan. Le lettere, già appartenenti all’archivio privato di Mirella Schott Sbisà, ereditato dalle figlie di Carlo Sbisà, sono state recentemente donate alla Biblioteca Civica Attilio Hortis di Trieste e ora sono conservate presso l’Archivio Diplomatico. Questo prezioso materiale documentario è stato meritoriamente pubblicato dalla Zel edizioni (Arturo Nathan – Lettere all’amico Carlo Sbisà 1940-1943) curato magnificamente da Andrea Del Ben e introdotto da due testi esemplari di Lorenzo Nuovo ed Enrico Lucchese.

Carlo Sbisà riassunse con poche efficaci parole il significato di questo scambio epistolare:

 

«[Nathan] era pieno di interesse per le cose anche minime della pittura, tanto che dal suo confino si consolava scrivendo agli amici lettere piene di questo argomento. Ai censori lettere siffatte sembravano incredibili! Le passarono alla Questura di Trieste e poiché erano per lo più dirette a me, mi chiamarono per dare spiegazioni. Durai gran fatica non dico a persuadere, ma almeno a spiegare per quali ragioni era possibile che un pittore come Nathan fosse sinceramente più preoccupato delle cose della pittura che non dei casi della vita. Il funzionario non era dei meno intelligenti e permise ancora la corrispondenza. Però scoteva il capo disperatamente. Le lettere sospette non avevano altro scopo che parlare di pittura, tuttavia vi si leggeva chiaramente della sua vita difficile, delle sue serene disperazioni».

 

La serena disperazione della quale parla Carlo Sbisà è frutto non di una malinconia artistica bensì di un periodo di domicilio coatto al quale fu costretto Arturo Nathan in quanto cittadino britannico (“nemico della patria”). Dalle Marche, nei paesi di Offida e Falerone, Nathan resistette con tutte le sue forze alle imposizioni del regime. Isaiah Berlin scrisse che Giambattista Vico, come Machiavelli, sfuggiva alle miserie rifugiandosi nel mondo dei libri. Nathan lo fece non con i testi di Platone o di Lucrezio, ma con il ricordo dei quadri che amò e studiò con l’occhio dell’artista. Solo a titolo di esempio, fra le molte questioni che Nathan affronta in questo epistolario, possiamo citare un dibattito che trova in Carlo Sbisà l’interlocutore più adeguato: il recupero e la valorizzazione moderna della tradizione della pittura murale che Campigli, Carrà, Funi e Sironi avevano affrontato nel Manifesto della pittura murale del 1933. I due amici, lo si evince da una lettera del ’42, ne discutono confrontando le loro argomentazioni con una passione che sembra straniante in un contesto come quello angoscioso vissuto da Nathan:

 

«Caro Carlo, ebbi la tua ultima lettera da Fiume e lessi con molto piacere le tue savie considerazioni sui rapporti che dovrebbero correre tra pittura ed architettura. Certamente dovrebbe esserci tra questa e quella un nesso armonico e l’architetto ed il pittore prima di cominciare le rispettive opere ed il progetto di queste dovrebbero consultarsi ed accordarsi. Invece mi sembra che troppo spesso avvenga, in pratica, che il pittore resta grandemente sacrificato e deve accontentarsi di eseguire i suoi affreschi su dei ritagli di muro per caso non utilizzati dall’architetto o dall’arredatore».

 

Anche da questa sola citazione possiamo comprendere lo sconcerto di quel solerte censore che non si capacitava del contenuto di queste lettere. La stupidità che sembra connaturata ai regimi dittatoriali forse fece sospettare un linguaggio in codice. In realtà, a leggere tra le righe, proprio il codice più segreto, quello dell’anima, permise a Nathan di aggrapparsi al dialogo con l’amico fraterno come a un’ancora di salvezza.

Sono dialoghi ricchi di riferimenti succulenti per lo storico dell’arte com’è il ricordo di Mario Broglio e Morandi accennato di sfuggita («Se vedrai ancora Pierino, ti prego si salutarlo per me. Forse hai potuto anche incontrare Morandi ed in ogni caso avrai potuto vedere i due paesi da lui dipinti a Trieste. Io, se ben mi ricordo, vidi Morandi a Roma nel 1922, presso Broglio che allora dirigeva la rivista Valori Plastici») che, come sottolineano Enrico Lucchese e Lorenzo Nuovo, consente agli storici dell’arte di rileggere in chiave nazionale gli esordi di Nathan e di molta pittura triestina di un intero decennio. Ma non è questo che a noi preme sottolineare. Non che si considerino irrilevanti i riscontri documentari che sono letti con l’ansia della scoperta dallo studioso. Ciò che ci sembra conferire maggiore importanza all’epistolario è la sua dimensione umana. Le lettere di Nathan a Sbisà non sono soltanto un documento per l’arte triestina, ma testimoniano dell’amicizia sentita e profonda fra due uomini che trovavano immenso conforto nella creazione artistica per la quale c’era sempre un senso di rispetto anche nei casi in cui le soluzioni non erano loro confacenti. Come ad esempio non apprezzare la pacatezza di giudizio sull’attività ritrattistica di Arturo Rietti, così lontana formalmente e concettualmente dalla visione metafisica di Nathan: «Poiché in Rietti non si nota quasi nessuna oscillazione e deviazione stilistica ed il suo ideale della buona pittura, formatosi forse prima dei vent’anni, rimase tale per tutta la sua vita, sicché il linguaggio dell’artista ventenne non differiva da quello del settantenne, salvo che pel naturale progresso compiuto camminando sempre sulla stessa via nella stessa direzione». Costante che non si sente di biasimare, semmai «questa naturale fedeltà allo stesso ideale d’arte sembra una caratteristica felice e tranquillizzante mentre la pratica opposta mi appare indizio di nervosità e di quasi morbosa irrequietezza».

È, come dicevamo, un dialogo sull’arte che permise a Nathan di sperare che la vita potesse riprendere i ritmi consueti e che quanto accadeva al mondo intero fosse soltanto un momento di follia collettiva che poteva essere affrontato ricordando a sé stesso che la scienza – moltissimi i riferimenti all’astronomia e alle osservazioni della luna – e l’arte siano l’unico argine razionale alle barbarie. Noi che sappiamo come Arturo Nathan trovò la morte, non possiamo non considerare che il suo attaccamento alla creazione artistica, testimoniato da queste lettere, ce lo rende ancora più vicino all’immagine che diede di sé stesso ne L’asceta (Trieste, Museo Revoltella). Si tratta di un autoritratto nel quale l’artista si raffigura nelle vesti di un’asceta, racchiuso nella cappa rigida dello scialle da preghiera ebraico. L’autoritratto è un esempio straordinario di quel Magischer realismus descritto da Franz Roh – che si fa fotografare ad occhi chiusi – nel quale le forme, si osservino in particolar modo le mani, sono riprodotte con un segno grafico quasi inciso nella sostanza pittorica. È un occhio che inquadra il mondo visibile attraverso un algido grafismo lineare. La frontalità ieratica e la rigorosa simmetria conferiscono solennità iniziatica a questa icona senza tempo. Dobbiamo ricordare che, nella vicenda artistica di Nathan, gli autoritratti rivestono un particolare significato, poiché documentano le varie fasi del suo lavoro di autoanalisi compiuto per mezzo dell’arte. Una ricerca caratterizzata dallo spaesamento metafisico dell’effigiato; volti che abitano un mondo ultraterreno che, nella loro atarassia, sembrano rammentarci che dalla sofferenza si può trovare rifugio anche soltanto chiudendo gli occhi e rivolgendo lo sguardo al nostro mondo interiore come nel conturbante archetipo onirico di Odillon Redon.

L’epilogo, come ben noto, per Arturo Nathan fu tragico come ricorda la sorella Daisy: «Avevo un’amica che era parente del federale a capo del paese marchigiano dove c’era il campo di concentramento in cui dopo l’otto settembre era stato internato mio fratello. La mia amica gli chiese di aiutarlo […]. Il federale gli offerse di farlo scappare dandogli anche i vestiti e suggerendogli di cambiare nome, perché Nathan era tipicamente ebreo. Mio fratello gli disse “queste pagliacciate io non le faccio, non è dignitoso”» (cit. in E. Lucchese, Arturo Nathan, Trieste 2009).

Il 16 maggio 1944 Nathan fu deportato a Bergen Belsen e poi trasferito a Biberach dove morì il 20 novembre 1944 a un passo dalla salvezza con i soldati americani che cercarono inutilmente di nutrirlo. Come ha scritto recentemente l’artista contemporaneo, nato a Sarajevo, Dean Jokanovic Toumin: «Se stai cercando l’inferno chiedi all’artista dov’è. Se non trovi l’artista allora all’inferno ci sei già» («If you are looking for hell, ask the artist where it is. If you don’t find the artist, then you are already in hell»).

 

 

Arturo Nathan, L’asceta, 1927, Civico Museo Revoltella