Arte di fede e di lotta

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Nelle pitture di Tone Kralj l’occulta denuncia della persecuzione antislovena del fascismo

di Roberto Curci

 

Assieme a tante foto d’epoca, tutte attinenti ai sanguinosi eventi di cui tratta, il fresco libro di Raoul Pupo, Adriatico amarissimo. Una lunga storia di violenza (297 densissime pagine, Laterza editore) reca due imprevedibili riproduzioni “artistiche”: dettagli di affreschi realizzati dal pittore sloveno Tone Kralj (Zagorica, 1900-Lubiana, 1975), due soltanto delle decine di cicli pittorici che l’artista realizzò, dal 1921 e per tre decenni, in piccole chiese di località generalmente minuscole (paesini, sobborghi di città), sgranate lungo una tribolata linea di “confine”, dal Tarvisiano al Quarnero.

Cos’ha a che fare – ci si chiederà – Tone Kralj, pittore a prima vista “devozionale”, specializzato in Ultime Cene, Vie Crucis e scene di cristiano martirio, con un complesso saggio storico mirante a illuminare le logiche (illogiche) della violenza che ha avvelenato la prima metà del ‘900 nelle terre dell’Adriatico orientale? Un’articolata spiegazione si può trovare nel libro di un altro storico, Egon Pelikan, tradotto nel 2020 a cura dell’Istituto regionale per la storia della Resistenza, a quattro anni dalla pubblicazione da parte della Mladinska Knjiga di Lubiana: Tone Kralj e il territorio di confine suona il titolo dell’edizione italiana, che fornisce le giuste chiavi di lettura dell’opera di Kralj, apparentemente innocua ed edificante, in realtà sotterraneamente segnata da un ben dissimulato impegno nella lotta che la comunità slovena del “territorio di confine” dovette ingaggiare per opporsi (non solo con le armi, dunque, ma anche con i pennelli) alla capillare bonifica etnica attuata dal fascismo.

L’arte sacra come strumento di lotta politica suggerisce un altro studio sulla vicenda di Kralj, firmato da Aurelio Slataper e reperibile in Rete. E di ciò per l’appunto si tratta, come fu del resto confermato dal pittore stesso in un’intervista del 1970 in cui ammise di essere stato chiamato «a operare nel Litorale da organizzazioni segrete antifasciste. La lingua slovena proibita doveva essere sostituita da immagini che, per stile e contenuti, si sarebbero dovute sentire nostre: slovene. Così si è eseguito il restauro degli interni di una serie di chiese. Dal 1921 se ne contano più di quaranta. Successivamente sono diventato, per così dire, uno dei loro e ho continuato a lavorare per loro anche in seguito. Tutte queste chiese sono state restaurate senza il consenso e perfino senza che le autorità lo sapessero, con mezzi estremamente limitati e soprattutto con il sacrificio mio personale».

Vanno dunque letti in controluce, non solo per quanto mostrano ma anche per quanto sottintendono, i cicli pittorici delle chiesette di San Silvestro a Pevma/Piuma e di Sant’Andrea a Gorizia, della Santissima Trinità a Cattinara e di Sant’Andrea a Trebiciano (Trieste), del santuario del Monte Lussari o della parrocchiale di Prem/Primano, presso Ilirska Bistrica. Il crudele martirio dei primi cristiani, rappresentato sulla parete sinistra del presbiterio della chiesa di Piuma, simboleggia ciò che i connazionali di Kralj stavano patendo nel 1929, quando gli affreschi furono eseguiti, mentre nella chiesa di Cattinara – come ha scritto a suo tempo Verena Koršic Zorn in un sontuoso volume bilingue dedicato all’artista (ed. Goriška Mohorieva Družba, 2008) – Kralj «si è talmente immedesimato nella sofferenza dei connazionali del Litorale da esprimere la sua visione degli avvenimenti del tempo in una monumentale Via Crucis che occupa tutto lo spazio della chiesa». (C’è da chiedersi quanti triestini la conoscano…).

Il ciclo di Cattinara risale al 1931, l’anno seguente alla fucilazione al poligono di Basovizza dei quattro sloveni giudicati colpevoli di un attentato al giornale Il Popolo di Trieste, organo ufficiale del partito fascista (un redattore ucciso, tre feriti). E la figura 31 del libro di Raoul Pupo “fotografa” la rappresentazione di Cristo davanti a Pilato (prima stazione della Via Crucis) leggendola appunto come una segreta allegoria del processo svoltosi dinanzi al Tribunale Speciale. Tanto più che i due legionari alle spalle di Pilato impugnano e ostentano chiari fasci littori.

Altrove Tone Kralj avrebbe saputo essere anche più audace. Lo prova la figura 27 del libro di Pupo; dice la didascalia: «La flagellazione di Cristo. Riconoscibili il Duce e un soldato italiano». In effetti è così. Il trattamento pittorico è però piuttosto anomalo rispetto ai connotati stilistici di Kralj. Meglio sarebbe stato se qui Pupo avesse indicato l’ubicazione di questo frammento, dettaglio invece mancante.

D’altronde, il profilo del Duce, confuso in una turba di peccatori, è ben individuabile da un occhio attento – benché seminascosto dietro l’altare – anche negli affreschi della chiesetta di San Nicolò ad Avber/Alber, presso Sesana. E in altre chiesette disseminate lungo la dorsale carsica si possono ritrovare, con il loro messaggio più o meno “cifrato”, le sacre pitture di Kralj, risalenti ormai agli anni della seconda guerra mondiale: a Sant’Andrea di Gorjansko/Goriano, a San Michele di Lokev/Loqua, a San Martino di Slivje/Slivia di Castelnuovo.

Di sicuro Tone Kralj fu più esplicito quando i tempi mutati, quelli ormai di un feroce conflitto globale, glielo consentirono. Era il 1943 quando dal suo pennello prese forma il quadro intitolato Rapallo (oggi al Museo regionale di Capodistria), con riferimento al negoziato postbellico che nel 1920 produsse appunto il famoso/famigerato Trattato omonimo, che consegnava all’Italia non tutto ciò che essa pretendeva (Fiume, in primis), e tuttavia una larga fetta di territorio indubitabilmente sloveno per storia, cultura e tradizioni.

Qui il simbolismo è trasparente e conclamato. La donna ignuda seviziata a sangue (e perfino addentata da un mini-Mussolini con fez) è palesemente la Slovenia, a malapena ricoperta da una stoffa recante il bianco, rosso e blu dei colori nazionali. Incombe su di lei un’inquietante sfilata di maschere che identificano i paesi protagonisti del negoziato del ‘20, conclusosi con quella che agli sloveni apparve – non a torto – come un’inaccettabile, traumatica mutilazione territoriale.

(Ma che dire, poi, della Via Crucis che un pittore non sloveno, bensì di nascita istriana e trapiantato in Friuli, Gino de Finetti, eseguì per la chiesa della “sua” Corona? Qui non ci sono sottintesi: i truci persecutori di Cristo nella sua ascesa al Calvario calcano infatti perfetti elmetti nazisti…).

 

 

Tone Kralj

Rapallo

Olio su faesite (?), 1943

Museo regionale

Capodistria/Koper