Arte in piazza

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L’Italia, con le sue città, salvo eccezioni (Milano), appare come un Paese culturalmente invecchiato, per lo più privo di fermenti culturali

di Enrico Conte

 

Perché è raro incrociare, in Italia, opere d’arte contemporanea nelle piazze? Sono così incompatibili con il loro disegno originale e, quindi, sono fuori luogo?

L’interrogativo è certo troppo generico, ma non è un tema per soli addetti ai lavori, perché interessa chiunque abbia a cuore la qualità dell’architettura e del paesaggio urbano e, quindi, la qualità della fruizione degli spazi di una città.

È intanto possibile partire da un recente dibattito sul concetto di città storica.

La migliore definizione di città Pier Luigi Cervellati l’ha trovata nel Dizionario del Tommaseo: «luogo spesso cinto da mura la cui costruzione non è affidata all’anarchia del caso e in cui vivono persone che si sottopongono alle medesime leggi». «Uno dei requisiti – continua Cervellati – che un abitato del Veneto doveva possedere perché l’impero Asburgico potesse fregiarlo del titolo di città, era che ci fosse un teatro. Il centro storico di una città, vanto della tradizione italiana, non è solo un aggregato di chiese, di palazzi monumentali o di scenografiche piazze, ma un tessuto fatto di pregi architettonici e di edilizia minuta, di strade che convergono verso un punto di fuga, di allineamenti, di persone, con le loro attività e le loro relazioni e che come tale va salvaguardato».

L’architettura, e le opere d’arte contemporanea, su queste premesse, sembra debbano restare fuori dai centri storici. Il restauro urbano, in tale prospettiva, è l’operazione preferibile, non solo del singolo edificio, ma di un complesso di edifici, accompagnato, magari,dal divieto di demolizioni e ricostruzioni e dal fermo ai cambi di destinazione. I monumenti, sostiene Cervellati, devono restare “monumenti di se stessi”.

Detto ciò la domanda resta con tutto il suo seguito di interrogativi che investono molteplici profili: una certa pigrizia della committenza pubblica che preferisce non allarmare i cittadini – elettori; sindaci e amministratori che intercettano il bisogno di un sentire rivolto al passato (“retrotopia”, la chiama Zygmunt Bauman) e con ciò carico di nostalgia e decadenza. I centri di promozione e di produzione dei beni culturali i cui curatori, forse, preferiscono artisti solo quando non turbano i sogni di collezionisti o di estimatori; i programmi di scuola e universitari che, spesso, non trattano la storia dell’arte con la necessaria attenzione per le sue ricadute sul presente. E poi le Soprintendenze che, al netto di comportamenti opportunistici, svolgono, spesso, un ruolo troppo sbilanciato su tutela e conservazione, anziché sulla valorizzazione dei beni culturali; una concezione museale di ciò che ha valore artistico, che confina le opere in luoghi chiusi e facilmente riconosciuti, dove prevalgono le collezioni permanenti collocate all’interno di teche, rispetto a mostre temporanee in spazi aperti al pubblico. Nel frattempo, mentre i centri storici venivano preservati, si dimenticavano i disastri consumati nelle periferie, dove uno sguardo centrato sul presente ha portato alla distruzione del paesaggio, per discutibili pianificazioni e per una sistematica mancanza di architettura di qualità.

Lo spazio, sia privato che pubblico, è un luogo mentale, frutto della personale concezione della relazione con il mondo, esito di processi culturali, di lenti di ingrandimento acquisite, di elaborazioni e sedimentazioni, nonché una conseguenza dell’ambiente circostante.

A ben vedere il Codice dei Beni Culturali non vieta la realizzazione di interventi moderni in prossimità di un bene tutelato. Quello che occorre certo verificare (art.20) è la compatibilità dei nuovi manufatti con il carattere storico-artistico di ciò che preesiste. Ecco,allora, che l’inserimento di un intervento che parli un linguaggio contemporaneo, può ritenersi compatibile, magari per caratteristiche di riconoscibilità e reversibilità. Il cuore del problema è il rapporto tra monumenti antichi e moderni. L’architettura è visione del futuro, è arte viva e, per sua natura, dovrebbe accettare la possibilità di essere modificata e, sia pure parzialmente, riscritta attraverso semplici “addizioni”.

Nel primo dopoguerra, in un clima di ricostruzione, volto alla ripresa economica e sociale del Paese, ha segnato un momento di rilevante attenzione il tema dell’arte negli edifici pubblici grazie alla legge 717 del 1949, che prevedeva che una percentuale di spesa dei quadri economici fosse destinata ad opere d’arte.

Dopo gli anni del boom economico, e in un contesto segnato dalla necessità di conciliare il costo di nuove infrastrutture con metodiche e tempistiche maggiormente pragmatiche, vennero sottratte dal novero delle opere pubbliche dove contemplare uno spazio per l’arte, le scuole e le università, l’edilizia industriale e quella sanitaria.

Adesso, una recente circolare ministeriale prova a rilanciare l’argomento con un decreto del maggio 2017, al fine di tornare a promuovere il valore del patrimonio edilizio pubblico attraverso forme e linguaggi contemporanei.

Colpisce che restino ancora escluse dall’obbligo (non dalla possibilità), le scuole,le università, l’edilizia industriale e sanitaria, le piazze, i parchi, le aree di qualificazione e rigenerazione urbana, luoghi per riqualificare i quali continua a non essere necessario contemplare una voce di spesa per le opere d’arte, nonostante l’intrinseca capacità delle stesse di parlare e trasmettere valori simbolici.

Il recupero sistematico della buona prassi di dare rilievo a opere d’arte nei quadri di spesa delle infrastrutture pubbliche, anche se non obbligatorio, avrebbe il valore di un investimento dai molteplici significati, se è vero che promuovere l’arte vuol dire stimolare un pensiero critico, capace di cogliere, attraverso le forme di un’opera, le tensioni, le aspettative, le decisioni, le assenze, i sogni o gli incubi di un’epoca, in una parola il nostro presente.

A Trieste, l’occasione offerta dalla gara per servizi di ingegneria e architettura per disporre del progetto per il nuovo Museo del Mare nel Magazzino 26 in Porto Vecchio, consentirà di cogliere anche questa opportunità: dotare la città di un edificio da fruire, rivedendo, magari, il modello tradizionale dei Musei triestini, servizi chiamati a coniugare conoscenza, ricerca e formazione con intrattenimento, e con la necessità di non dirsi indifferenti ai costi e agli introiti.

Un museo che sia un laboratorio di idee, un work in progress attrattivo, a partire dal suo contenitore architettonico, con interventi che sappiano osare, come accaduto con la sopraelevazione del Teatro Marcello a Roma, con l’ampliamento della National Gallery a Londra, con l’addizione al Guggenheim di New York, la piramide al Louvre o gli ampliamenti del Prado.

L’Italia, con le sue città, salvo eccezioni (Milano), appare come un Paese culturalmente invecchiato, per lo più privo di fermenti culturali e con cittadini che sembra si siano scordati di proporre uno sguardo nuovo sulle cose e sui luoghi:i demografi parlano di “un sottomarino che sembra aver perso la spinta per riemergere”.

A fine anni ’90 venne pensata la riqualificazione delle più importanti piazze della città: per tutte Piazza Unità, con riferimenti certo contemporanei. Poi la crisi economica del 2008 e il Patto di Stabilità (fino al 2016), non hanno aiutato ad investire, posto che i bilanci degli enti locali non disponevano, in virtù di quei tortuosi vincoli, nemmeno delle risorse per le manutenzioni ordinarie.

Il contesto economico, ora più favorevole, invoglia a riprendere il tema delle progettazioni che dovranno essere capaci di mettere insieme la storia della città e del suo linguaggio architettonico con la voglia di osare, usando l’arte come mezzo per interloquire col presente.