Toh, un triestino sulla colonna

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Succede a Vienna: Basilio Calafati, “anima” ottocentesca del Prater

di Roberto Curci

 

Di statue – belle o brutte, significative o futili, da tempo in situ ovvero progettate o soltanto auspicate – si è già parlato qui tempo fa. E, per un veloce ripasso, svolge sempre ottimamente il suo compito il lussuoso volume di Gabriele Crozzoli e Mara Rondi, La Trieste delle statue. Leggerezza e dinamismo nelle suggestioni di una città (Edizioni del Capricorno, 2004), cui da non molto si è aggiunto – a catturare significativi dettagli scultorei – il Trieste inconsueta di Anthony J. Bradshaw (Edizioni Antilia, 2019).

E dunque, mentre il Tallerone di Maria Teresa attende ancora il suo ubi consistam in Ponterosso e quel tal lettore mingherlino accomodato su una panchina dinanzi alla Borsa Vecchia, benché incongruo e anonimo (chi sarà mai?), risulta già affatto indifferente ai passanti, la scommessa è adesso sulla candidatura di Josef  Ressel, sui costi e sull’ubicazione della sua effigie, mentre già il variegato comitato promotore dell’omaggio all’inventore dell’elica navale presenta al pubblico il bozzetto dell’opera e con l’agile speme precorre l’evento.

Sono forse pochi, però, quanti sanno che a Vienna, in una piazza del cosiddetto Wurstelprater, esiste da un bel po’ la statua di un triestino: che non fu letterato o scienziato, musicista o pittore, ma soltanto uno scaltro imprenditore factotum, che aveva iniziato la carriera come venditore di formaggi e salami nel vastissimo spazio che nel 1766 Giuseppe II aveva liberalmente destinato a parco pubblico, rinunciando al proprio imperial privilegio di un parco di caccia.

Pareva davvero predestinato a ritagliarsi uno spazio e un ruolo significativo nell’Ottocento degli albori, il triestino di cui si parla, nato com’era esattamente il 1.o gennaio del primo anno del XIX secolo. Si chiamava Basilio (Vassilios) Calafati, quarto dei cinque figli di un commerciante greco di tappeti, Giorgio, originario di una località del Marocco (Zagora), e di una Florentia, con radici invece a Smirne. Insomma, una famiglia di immigrati greci, una delle tante che avevano scelto la Trieste del Punto Franco per cercarvi fortuna.

E che l’avessero trovata pare comprovato dal fatto che al suo battesimo il piccolo Basilio si ritrovò come madrine una Andrulachi e una Carciotti, cioè due esponenti di famiglie già inserite con gran successo a Trieste, titolari di due dei palazzi più imponenti e prestigiosi della città: il Carciotti ancora in costruzione, l’Andrulachi già ben solido in via Ponchielli (con un panduro tra i più arcigni della città in veste di guardiano in chiave d’arco).

Come, quando e perché Basilio Calafati abbia scelto Vienna per la propria carriera, non è dato sapere, almeno a chi scrive queste righe. Consta però che verso il 1820 avesse già messo gli occhi su quella che per i viennesi era la zona del passeggio e dello spasso; anzi, aveva già deciso di aprirvi una rivendita di generi alimentari (formaggi e soprattutto salami, come si è detto), che ebbe presto gran successo, tanto che al suo proprietario venne affibbiato dai clienti golosi il soprannome di Salamucci. Ma non era che l’inizio.

Negli anni che seguirono i suoi interessi si diversificarono e crebbero di pari passo con notorietà e fortune. Divenne egli stesso una delle attrattive del Prater, anzitutto proponendosi come prestigiatore e illusionista, essendo stato ben presto adottato come assistente da colui che all’epoca era celebre come “il Mago del Prater”, Sebastian von Schwanenfeld.  Da lui Calafati apprese ogni trucco del mestiere, e da lui, già nel 1834, acquistò vaste aree di terreno su cui impiantare altre attrazioni, ben presto divenute anch’esse assai popolari.

Se ancor oggi l’altissima ruota panoramica del Riesenrad (1897) è ritenuta l’emblema stesso del Prater , negli anni fortunati di Calafati furoreggiò la Karusellfiguren, la giostra a cavalli di legno che egli vi creò verso il 1840 e che, dopo la costruzione di una vicina linea ferroviaria, divenne nel 1844 la prima “giostra a vapore”, avendo il Nostro fatto realizzare, al posto dei cavalli, due mini-locomotive, battezzate “Hellas” e “Pechino”, con gran sollazzo dei bambini.

Non basta. Una buffa statua in legno dipinto, alta nove metri e ruotante, Calafati la volle dedicare a se stesso nelle vesti del “mago cinese” con cui si esibiva: la gente la chiamò subito “Der grosse Chineser” e, assieme a un’altra statua analoga raffigurante la Fortuna, sopravvisse per quasi un secolo, dal 1854 al 1945. Distrutta, venne poi ricostruita nel 1967, quasi a furor di popolo, e sta tuttora lì, quasi all’epicentro del Prater.

Definire Calafati versatile e infaticabile, è davvero poco. Tanto più che questo greco triestino viennesizzato aprì nel 1846 un ristorante, cui poi aggiunse un vasto portico, altre sale di ritrovo e un salone da biliardo. Padre anch’egli di cinque figli, visse fino al 1878, e venne sepolto nel cimitero di St. Marx, da cui fu poi traslato altrove, ma dove ancora rimane la lapide originaria.

Nell’immaginario dei viennesi Calafati rimane indissolubilmente legato al Prater: anzi, è egli stesso il Prater. A lui è stata dedicata una simpatica canzone popolare, a lui venne intitolata nel 1963 una piazza nel Wurstelprater, appunto la Calafattiplatz (con due T), per lui fu infine eretta, nel mezzo di Riesenradplatz, la statua bronzea da cui siamo partiti e che lo ritrae, appunto, nel suo “abito di scena”.

Della serie: triestini che si fanno onore all’estero? Mettiamola pure così. Certo, Basilio Calafati non fu un venerabile uomo di cultura, ma – diremmo oggi – un abile businessman a suo modo geniale, partito dai salami e arrivato ben in alto. Quanto meno sulla sommità di una non ignobile statua, nel Leopoldstadt, il secondo distretto della città di Vienna. Scusate se è poco.