ASPETTANDO VENEZIA

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Gianfranco Sodomaco

 

Aspettiamo, quest’anno, con particolare curiosità il Festival di Venezia, la 72a Mostra d’Arte Cinematografica. Perché? Perché il suo direttore, Alberto Barbera, lo ha annunciato con una particolare sottolineatura: “il vero riferimento è il mondo reale” (La Repubblica, 28 agosto). Non sembri una semplice battuta: siamo andati a vedere il programma e la stragrande maggioranza dei film che verranno presentati hanno a che fare con fatti realmente avvenuti, personaggi realmente vissuti, riflessioni sul passato e sul presente storico. Ci fa piacere, Barbera ha capito bene il momento drammatico che stiamo vivendo e ha deciso che il cinema deve essere, oggi più che mai, ‘specchio del mondo’. Basti qualche esempio (entreremo nel merito la prossima volta): Beasts of no nation di Cary Fukunaga (uno dei padri delle serie televisive americane), sui bambini sfruttati nei paesi africani; Rabin di Amos Gitai, sull’omicidio del premier ‘pacifista’ israeliano;Spotlight di Thomas McCarthy, sulla pedofilia cattolica americana. Potrebbero bastare questi tre film ma la lista è ben più lunga (tenendo conto anche dei 4+3+2 italiani, tra Concorso, Fuori concorso e ‘Orizzonti’). Bene, andiamo a vedere il buon cinema estivo.

Film che, non a caso, provengono dal circuito alternativo, dai cinema d’essai, a conferma che un pubblico minoritario, non di massa, esiste e, giustamente, esige. Partiamo da I ponti di Sarajevo, una grande coproduzione europea (Francia-Italia-Svizzera-Bosnia-Bulgaria-Portogallo-Romania), una miscellanea di piccoli documentari di autori vari, tantissimi (impossibile ricordarli tutti), sul tema di ‘Sarajevo ieri e oggi’, dall’inizio della Prima Guerra Mondiale alla ennesima guerra balcanica tra il 1991 e il 1995 (decisamente migliori quelli sulla Sarajevo odierna, ‘città martire’). Tra i tanti autori vale la pena ricordare almeno: la svizzera Ursula Meier, che realizza un piccolo mélo semplice e toccante; il romeno Cristi Puiu che immagina uno spiazzante dialogo tra due coniugi a letto; il nostro Vincenzo Marra che racconta il rifiuto di una donna di tornare, oggi, a Sarajevo; ancora un italiano, Leonardo Di Costanzo, che porta sullo schermo uno dei più bei racconti di guerra, La paura, utilizzato anche da Ermanno Olmi per il suo bel Torneranno i prati. Da ultimo, una presenza celebre: Jean Luc Godard che, ancora una volta, non perde occasione per parlare, più che di Sarajevo, del cinema e deii suoi limiti. Impossibile non ricordare che quest’anno si è celebrato il 20° del massacro di Srebrenica, altra cittadina martire, simbolo di una guerra nazionalistica e fratricida che poco ha suturato la ferita, elaborato il lutto, e dove continuano a sopravvivere sospetti e divisioni.

Il secondo film: Louisiana, di Roberto Minervini, regista italiano che lavora negli Stati Uniti. Il film, presentato alla rassegna ‘Un Certain Regard’ del Festival di Cannes 2015, è il classico ‘film maledetto’. Minervini ha avuto una lunga frequentazione con molti abitanti di una cittadina dello stato del profondo sud degli Stati Uniti ed essi sono diventati i protagonisti del suo ‘docufilm’: da qui una serie di storie intrecciantesi e ai limiti dell”orrendo’. In particolare: la storia di Mark e Lisa, drogati allo sbando che, pur amandosi, non riescono a dare un senso alla loro esistenza; poi, una specie di gruppo paramilitare, ex militari che hanno fatto tutte le guerre yankee dell’ultimo cinquantennio (Vietnam, Afghanistan, Iraq) e che trascorrono le loro giornate maneggiando armi e ‘preparandosi al peggio’. Sì, perché questi uomini sono convinti che la ‘vecchia America’ è in pericolo e che il nemico per eccellenza è Obama, simbolo del potere democratico in cui essi non si riconoscono (l’ultima scena riguarda proprio l’incendio della carcassa di un’auto dove hanno inserito il manichino di Obama). Cinema-verità puro, Minervini ha girato con una troupe minima e con una tecnologia leggera proprio per modificare al minimo lo svolgersi realistico dei fatti. Piccolo capolavoro. Allo spettatore il compito di giudicare questo aspetto, niente affatto sconosciuto, dell’America.

Il terzo film: Eden, di Mia Hansen-Love che si lascia ispirare dalla Parigi anni ’90 e dalla vita del fratello Sven, in particolare dalla passione che egli ha, e condivide con un bel gruppo di amici dj, per la musica dance. Tutta la prima parte del film è ambientata (fino allo sfinimento!) nelle varie discoteche, fino a che il gruppo di amici non decide di ‘internazionalizzarsi’ e spiccare il salto verso l’America. Qui inevitabilmente, nel fare i conti con la grande organizzazione, cominciano a nascere i primi problemi di tenuta, di mantenimento della passione giovanile, sicché tutta la seconda parte (per me la più bella) non può che registrare tutte le crisi individuali e di coppia, dei maschi musicisti e delle loro accompagnatrici, fino alla debàcle finale: il gruppo si scioglierà e Sven cambierà mestiere. Quello che sembrava un ‘paradiso’ diventa un Eden perduto. C’è chi cui il film è piaciuto molto, a me un po’ meno, memore dei due film precedenti di Mia: Il padre dei miei figli e Un amore di gioventù.

Il quarto film, il più visto, vincitore dell’ Orso d’oro alla Berlinale 2015: Taxì Teheran, del pluripremiato Jafar Panahi. L’idea di fondo del film nasce dalla necessità esistenziale di Panahi (impedito a girare, perseguitato fino a essere anche imprigionato dal regime iraniano): decide di ‘chiudersi’ in un taxì, di girare clandestinamente per la città quasi senza essere visto, e di cominciare a interloquire con la gente che incontra, dando vita a tante piccole, significative storie. Ne viene fuori un film commovente e piacevole al tempo stesso, per le persone che riconoscono il regista e si congratulano con lui, per ciò che gli raccontano e che fa emergere un paese pieno di potenzialità che non aspetta altro che di potersi esprimere. Assolutamente da vedere.