Australia 12: Melbourne

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After the gold rush, niente pace, niente prosperità, ma piccole celle per chi alza la voce

The old Melbourne gaol, tante facce e tante storie di emarginazione, disagio, povertà e follia

Persone smarrite negli acquisti di borse colorate e pacchetti di sogni

di Pericle Camuffo

 

C’è un vento forte che fa traballare la machina. Raffiche decise, come spintoni di qualcuno che si sta innervosendo. Mi sono appena sistemato nel campeggio Big 4 a nord della città e non sarà il vento a farmi andare via da qui, non questo vento. Sono cresciuto dove la bora scende dai monti della Slovenia e spazza la laguna a 140 chilometri l’ora gelando le onde e la sabbia, tagliandoti faccia e mani, al vento, ci sono abituato.

Seduto in macchina, guardo una giovane ragazza rasata e carina che tenta di giocare con una pallina da tennis. Cerca di palleggiare con i piedi, ma non ci riesce. Il vento sposta la pallina di qua e di là e ne cambia continuamente la traiettoria, ma lei insiste. Indossa una tuta di jeans di qualche taglia più grande, che le toglie ogni forma gonfiandosi e sbatacchiando nel vento, e la rende simile a quelle grandi sagome riempite d’aria che ci sono di solito davanti ai centri commerciali o alle stazioni di servizio. Anche il ragazzo biondo di fronte a me sta lottando con il vento, cercando con ostinazione di leggere un’Australia confusa e spezzettata tra le pagine della sua guida che gli sfuggono di mano.

Ognuno ha la sua lotta personale, ripiegata tra le fibre dei muscoli, che ci rende incerti, sagome d’aria che riusciamo ad addomesticare solo appiattendole al suolo, solo togliendo loro l’anima, la vita. Tento di scribacchiare qualcosa, ma non ho idee, solo un vuoto ronzane. Questa, per ora, è la mia lotta.

 

The old Melbourne gaol. Braccio C. Silenzio e freddo che entra nelle ossa e stride. Per 142 anni questo posto è stato il bidone dell’immondizia della città. Immigrati assassini banditi ormai cera e cartapesta, maschere della morte, tra muri bianchi, logori, da dove il sangue è sparito ma le grida sono ancora tutte presenti, amalgamante all’intonaco. Mura piene di vita che raschia le pareti con unghie rotte di pianto, con eiaculazioni strette tra i denti, mura striate di sperma, di luridume e fruste schioccanti nell’aria ferma del pomeriggio assolato.

Alzare pareti di pietra, 1841, a contenere ciò che il mondo è diventato after the gold rush, niente pace, niente prosperità, ma piccole celle per chi alza la voce, mattatoio di membra e di membri ormai piccoli pezzi di carne inutile sui corpi appesi ad allungarsi il collo, l’ultima erezione a gridare la vita. Ne sono morti 135 in questa prigione, cappucci di tela per i più cattivi, per ucciderli molto prima della forca.

The old Melbourne gaol, simbolo dell’autorità della colonia, carcere modello, guai fiatare, come cristi appesi ad un filo, come ragni a scendere dal soffitto per morire muti.

Cammino piano. Getto gli occhi nelle celle senza finestre, rimbalzano sulle pareti di cemento come palline di gomma, senza trovare una via d’uscita, impazziti. Così devono aver fatto anche le urla dei condannati di cui rimangono poche parole sotto vetro, illuminate, a raccontare la loro storia e le loro maschere di morte, teste grigie e mute, senza capelli. Fatta Chiad, cella 26, Albert Williams detto Frederich Deeming, suo vicino di sospiri, ha ucciso moglie e quattro figli, li ha seppelliti sotto casa, impiccato a 37 anni. I miei passi nei corridoi tolgono il silenzio. Fred Jordan ha conosciuto sua moglie, la bella Minnie Crabtree in una giornata di trasparenze. Coppia felice, sorrisi e amore, piccole cose di tutti i giorni, ma i giorni cambiano all’improvviso si fa buio e poi bere e ringhiare odio che ti cuoce dentro lo stomaco e lo buca. Piedi e mani che diventano di marmo e spaccano le ossa della bella Minnie. Una sera del 1894, Fred va a letto e si sveglia, il giorno dopo, con un cadavere accanto, muto di sangue.

The old Melbourne gaol, tante facce e tante storie di emarginazione, disagio, povertà e follia. Basilio Bonditto è rimasto muto per la durata di tutta la prigionia, silenzio di parole e di pensieri. Ucciso a 65 anni. Chiavi e lucchetti e l’armatura di Ned Kelly bandito down under, “così è la vita” ha detto, quando lo hanno beccato, c’est la vie e niente altro. Impiccato l’11 novembre 1880. Un’altra faccia di cera. Calchi di vite sparite, come i faraoni, ma niente feste e sarcofagi d’oro, solo polvere e sputi.

Chissà che faccia aveva quello che faceva queste maschere, faccia anonima, faccia da niente, faccia da cazzo. La sua maschera non è rimasta qui, è morto e basta, non lo potrò mai vedere, cancellato dalla storia.

Ma la follia rimane sulla carta patinata, “provate l’atmosfera spettrale e terribile del carcere, tendete l’orecchio, sembra quasi di sentire il cigolio delle catene dei carcerati”. Anche chi ha scritto questo opuscolo informativo verrà spazzato via dalla storia, o forse sarà l’ultima maschera, l’ultima erezione di questo inferno.

The old Melbourne gaol si dissolve nella luce della strada, là in fondo. Lascio il buio dietro di me ed entro nel mio carcere pieno di sole, e mi sento quasi fortunato.

 

 

Melbourne Central non è altro che perdersi tra persone smarrite negli acquisti di borse colorate e pacchetti di sogni. Non devo comperare niente, fare niente, passo da un piano all’altro scivolando su scale mobili silenziose e aria condizionata e tutto è pulito, lucido, finto. Tempo da buttare perché tra le mani è solo pesantezza, ingombro. Aspetto che il grande orologio d’oro Seiko batta l’ora e si apra con musichette da carosello. Aspetto, appoggiato alla ringhiera, di battere le mani come un idiota in questa festa di niente e di nessuno.

Rientro al campeggio, ma non riesco a partecipare alla musica e alla festa che qualcuno ha messo in faccia a questo giorno floscio. Le mani sui bonghi, lente, risvegliano la terra e pezzi di tempo nascosti nella notte del mondo e il basso dei didjeridoo chiama a raccolta gli spiriti ancestrali e piste di terra rossa calpestate da generazioni e generazioni di aborigeni sempre in marcia verso la propria identità sacra e immortale di nomadi instancabili. Due ragazze cercano nell’aria con mani e piedi scalzi danze che non conoscono e l’erba bagnata e disegni di candele sfrigolanti di luce gialla e tutti si scambiano gesti antichi e bottiglie di vino e offerte di sesso nelle tende colme di orgasmi e sacrifici da innalzare al cielo e agli dei. Io partecipo a distanza di sicurezza, come se stessi guardando un film. Non riesco ad uscire dalla macchina e ballare con loro. Bevo birra calda e mangio carote aspettando che il sonno mi catturi e mi porti via con la luna che è argento vivo nel cielo, quasi piena.

Sono troppo rilassato, di una rilassatezza che stanca, che scioglie i muscoli e me li fa cadere per terra lasciandomi con le ossa all’aria. E mi ritrovo, a volte, a camminare e ridere senza motivo, di quasi felicità, come un idiota, e non so se preoccuparmi o far finta di niente. Devo muovermi per tonificare le gambe. Devo andarmene anche da qui, per sopravvivere.

Il campeggio si è riempito di macchine e di tende e di gente. Fa freddo. Il vento gelido indurisce i corpi seminudi e tutti cercano nello zaino qualcosa di più pesante. Ci sono due tedeschi con uno strano camion, una specie di mezzo blindato dell’Afrika Korps. Ne ho già incontrato uno uguale da qualche parte in Nuova Zelanda anni fa, con dentro sempre due tedeschi. Forse li hanno svenduti alla fine della guerra e se gratti un po’ la vernice trovi ancora la svastica luccicante nella sua magia ossessiva ed ingombrante. Forse i loro genitori hanno combattuto chiusi lì dentro e lo hanno lasciato in eredità ai figli, perché la guerra non smettesse mai. Lei è una ex figlia dei fiori, con i pantaloni a zampa e i maglioni colorati fatti in casa che stonano sulla faccia asciutta e spigolosa e sui lunghi capelli grigi, mentre lui è un vecchietto esile ma eretto, di una fierezza germanica che salta all’occhio mentre si muove rigido, a piedi scalzi.

I ragazzi inglesi appena arrivati sono già a buon punto verso il coma etilico e giocano a pallone e lo hanno tirato anche contro la mia macchina, si sono scusati e hanno smesso perché so fare gli occhi molto cattivi, solo quelli, è l’unica cosa che ho per difendermi, e adesso si tagliano le basette l’un l’altro con piccole forbici di metallo, seduti davanti al loro furgone Volkswagen giallo ocra e ai cartoni di vino bianco rovesciati qua e là. Sono anche arrivate due ragazze con la solita Ford Falcon, la macchina dei backpackers. Hanno le facce da nulla, ma una ha belle spalle larghe, diritte, e bacino stretto, culo alto che scodinzola nei pantaloni corti, neri, e capezzoli rilassati in cima ad un notevole paio di tette che ciondolano libere sotto una maglietta bianca. Ha la voce grossa, non roca, ma grossa, metallica. Mi guarda, ogni tanto. L’altra ha lunghi capelli castani che si sfilacciano nel vento, gambe corte, da colombo, e culo piatto. Le tette le stanno su bene, piccole e appuntite contro la camicia. Non mi ha mai guardato.

Due ragazzi tatuati ridono e non hanno freddo nei loro toraci larghi e scolpiti e nudi. Passano e se ne vanno. Laggiù c’è sempre la ragazza rasata danzatrice di ritmi ancestrali e palleggiatrice senza futuro, con il suo viso quasi maschile e i pantaloni ampi di carne e di vento, i movimenti strappati dal fondo della notte, ancora bui e pieni di sonno.

Il tramonto è rosso e cade oltre gli alberi che circondano il campeggio portandosi via il rumore di ogni cosa. Anche il vento sembra muto. E le cose trapassate da questo silenzio si cristallizzano, perdono aggressività e mi sorridono. La ragazza rasata continua a giocare ma nel riflesso del sole sembra quasi immobile, rallentata, mentre il ragazzo biondo sta mangiando baked beans direttamente dalla scatola. E’ tutto così tranquillo, adesso, una serenità dolce si è distesa sopra tutto e tutti, una quasi pace che mi avvolge con gentilezza.