Blade Runner 2049

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È un meta-film, in quanto, oltre a entrare in dialogo con il primo B.R., cita e rimacina innumerevoli suggestioni cinefile e letterarie, più o meno riconoscibili

“Un sistema di cellule intrecciate con cellule intrecciate, dentro un unico stelo.”

di Pierpaolo De Pazzi

 

 

Blade Runner 2049 (Denis Villeneuve, USA 2017)

Valutazione 4/5

 

Los Angeles, trent’anni dopo. Le conseguenze del fall-out nucleare rendono invivibile la megalopoli, in balia di tempeste di neve mista a cenere e difesa contro il minaccioso oceano da colossali dighe. Non esistono più i vegetali, e gli animali sono quasi tutti riproduzioni. La Tyrell è fallita, ma nuovi replicanti, schiavi finalmente obbedienti, sono prodotti dalla Wallace, la corporation che, riemergendo da un disastro informatico paragonabile a una perdita di memoria di tutta l’umanità, produce anche il cibo sintetico.

Alcuni dei replicanti sono destinati a “ritirare” i vecchi Nexus 8 ribelli, ultimi prodotti dalla Tyrell. K è uno di loro, un Blade Runner.

 

«Se arrestarla è un’opzione, la preferirei di gran lunga all’alternativa»

 

Lo seguiamo mentre si occupa della sua indagine più difficile, che coinvolge in qualche modo il suo passato, legandolo al futuro della terra e della coabitazione tra umani e replicanti: potranno vivere separati, o il limite tra umano e non umano è pronto a cadere?

Questa è la fin troppo complessa trama del lungo film di Villeneuve. Il regista è rispettoso del suo prestigioso antecedente, ma trova il modo di inserirsi dentro quella storia in modo molto originale, per riaprire con coerenza quel mondo. Ecco, cominciamo quest’impressione di visione con una speranza, che questo film sia l’ultimo, non sia cioè destinato ad aprire una serie, che non ci siano altri inutili sequel o prequel, che non si inizi un franchising come quello Marvel, o una saga interminabile e francamente stucchevole come quella di Guerre stellari.

Difficile dare una lettura sintetica e univoca dei 152 minuti di questo film, anzi di questo B.R. 2049 che è un meta-film, in quanto, oltre a entrare in dialogo con il primo B.R., cita e rimacina innumerevoli suggestioni cinefile e letterarie, più o meno riconoscibili, in modo molto personale, anche se non sempre con grande profondità.

Proviamo a seguire alcune di queste citazioni intertestuali.

Sui rapporti tra i due film non mi dilungherei troppo: sono evidenti, dichiarati e inevitabili. Ci sono due camei “veri”, Harrison Ford e Edward James Olmos nei panni dei medesimi invecchiati Deckard e Gaff e c’è una Sean Young / Rachel riproposta in celeberrimi spezzoni del vecchio film ma anche “replicata” con (buone) tecniche di Computer Generated Imagery. E naturalmente c’è tutto il mondo visuale cosiddetto retrofuturista che caratterizzava B.R., ripreso e aumentato in questa nuova versione, che raggiunge forse i suoi risultati migliori nella caratterizzazione degli interni. Gli esterni sono urbani, notturni e piovosi, ma anche, e questa è una novità, extraurbani, e il film pare ispirarsi tanto agli antecedenti del primo B.R., da Metropolis a Star Wars, che alle esperienze migliori che seguirono, da Batman a Dark City.

La sceneggiatura non può non ripartire da Dick e ovviamente da Il cacciatore di androidi (Do Androids Dream of Electric Sheep?)”, ma in senso largo rimanda a tutto l’universo dickiano.

È il caso del tema della memoria, dell’importanza dei ricordi, che costruiscono la nostra personalità, addirittura oltre al limite stesso della corporeità, come evidenziato dal personaggio di Joi, compagna in un rapporto vertiginosamente virtuale del replicante K: viva, anche se immateriale, perché capace di conservare ricordi. È il sapere che possono essere cancellati, questo esistere per la morte, che la rende veramente umana e, grazie a questa consapevolezza della propria finitezza, capace di amare veramente.

Purtroppo per questa parte iper-romantica, che avrebbe dovuto costituire il controcanto a quella che fu di Rachel nel primo film, è stata scelta una giovane e certo avvenente Ana de Armas, che però non riesce a renderla indimenticabile e a reggere il confronto con il ricordo (troppo bello per essere vero, ci sarà stato innestato? Chissà…) di Sean Young / Rachel. A lei auguriamo miglior fortuna di quella che ha avuto la Young come attrice, con il dubbio che Villeneuve non abbia sentito troppo trasporto per questa sotto-trama del film e non sia riuscito a darle la giusta profondità.

L’anima, sembra dirci Villeneuve, al di là di essere stati generati da uomo e donna, piuttosto che creati da una corporation, è la capacità di ricordare. Così il personaggio di Ana Stelline, la creatrice di ricordi che collabora con la Wallace per gli innesti mnemonici nei replicanti, è una figura centrale e demiurgica nella vicenda, perché più dello stesso Wallace è lei che dona a questi novelli Frankenstein la vita, con un patrimonio di ricordi infantili che danno individualità e una ragione per vivere. La parte del film in cui Ana spiega in cosa consiste il suo lavoro, creare sogni, e ce ne mostra alcuni esempi, è una delle parti più liriche del film, sicuramente quella in cui Villeneuve, creatore di quelli che furono detti sogni di celluloide, è riuscito a provare e farci provare maggior empatia con il personaggio.

 

«C’è qualcosa dell’artista in ogni sua opera»

 

Ma in ogni opera c’è anche molto di altre opere, e Villeneuve non teme di scegliere citazioni altissime: ne è prova il riferimento al libro dei libri, la Bibbia, con quella che potremmo dire un’esplicitazione di una citazione latente e forse inconscia del primo B.R. Come un’occasione colta benissimo, dal nome della protagonista del primo film germoglia questo riferimento biblico. Ecco che la Rachele della Genesi e Rachel condividono lo stesso destino tragico e dal loro sangue è destinata a emergere la possibilità della redenzione, del popolo di Giudea nel primo caso, dei replicanti nel secondo.

Ed è qui che, nel lento fluire tarkovskijano del film, emergono, con connotazioni addirittura di messianismo rivoluzionario, le tensioni pre-rivoluzionarie di questa neo società, divisa tra umani e replicanti.

 

«Il mondo è basato su un muro che separa le specie: dì a tutti che non c’è il muro e avrai una guerra o un massacro.»

 

Intanto fuori dal centro della metropoli pullulano i mendicanti, e lo sguardo che indugia su di loro assume quasi i toni del romanzo sociale di Dickens, ad esempio quando Villeneuve segue K nell’officina/orfanatrofio che non può non ricordare gli scenari delle sventure di Oliver Twist, mentre il direttore ci ricorda Fagin. Ma sappiamo che questo mondo di sfruttamento infantile e del lavoro sottopagato è oggi quotidiana attualità in molte parti del mondo, tra i lavoratori senza speranza, ergastolani senza processo in miniere assassine, o tra chi demolisce senza alcuna tutela manufatti, per riciclarne componenti ancora di valore, come succede alle vecchie navi sulle spiagge del Bangladesh.

 

«Ogni civiltà è stata fondata sulle spalle di una manodopera sacrificabile.»

 

Un’altra citazione letteraria molto alta che mi è sembrato di cogliere sta nella scelta del nome Joe per K, operata a un certo punto del film da Joi: Joe, Joseph, come Giuseppe, il figlio di Rachele, ma anche come Josef K, il protagonista de “Il processo” di Kafka. E come quel personaggio letterario, colpevole di un crimine innominabile, così K si deve difendere, nel film, dal sospetto dei suoi padroni (dis)umani, che cioè cominci a mostrare segni di umanità. Viene infatti più volte sottoposto alla nuova versione del test Voight-Kampff, rovesciato come finalità rispetto a quello del primo B.R., che doveva smascherare la macchina, il replicante che si fingeva uomo, mentre qui la nuova rielaborazione del test di Turing serve per mostrare barlumi di umanità nel replicante, e con questi il pericolo di una ribellione contro il creatore.

 

«Sistema di celle intrecciate dentro celle intrecciate dentro celle intrecciate in un unico gambo… Sogna esistenze intrecciate intrecciate.»

 

Arrivato fin qui mi chiedo se sia legittimo tentare di dare una lettura personale di un film inseguendo alcune delle citazioni di cui è disseminato, e perdendone inevitabilmente molte altre: non ci si dovrebbe forse limitare a dire in cosa ci è piaciuto e in cosa no?

 

Può darsi che questa volta mi sia perso più di altre in un gomitolo di pensieri inconcludenti, ma in questo mi sento molto incoraggiato da Villeneuve, che in una scena mette in mano a K una copia di “Fuoco Pallido (Pale Fire)”, uno dei testi più complessi di Vladimir Nabokov.

Nel risvolto di copertina della bella edizione Adelphi leggiamo: «Plurimi sono i livelli di realtà che si intersecano nel libro, i falsipiani che moltiplicano le prospettive dell’intreccio rendendolo vertiginoso: Fuoco pallido si avvia sereno come una pastorale, esplode in commedia festosa, si inerpica fino al culmine dolente di un’elegia, prende il largo sotto le sembianze di racconto avventuroso, ma la sua nota dominante resta quella tragica della solitudine.»

Credo che così il regista abbia voluto darci un altro indizio sull’approccio che ha scelto per girare un film che è contemporaneamente un blockbuster, un potenziale reboot (iniziatore di una nuova serie che continua l’originale) e anche, quasi sottotraccia, un’opera che riesce a mostrare ambizioni e capacità autoriali, mettendo in gioco molti piani di lettura, come il libro di Nabokov, che ci invita a considerare :

«…non il testo, ma la sua tessitura; / non il sogno, ma la coincidenza capovolta, / non il vano nonsenso, ma una rete di senso» (vv. 808-810)

È incoraggiante allora trovare finalmente nel poema di Nabokov (o dovremmo dire meglio del fantasmatico professor Shade, cui Nabokov lo attribuisce) anche l’origine e la spiegazione delle parole del test cui nel film viene sottoposto più volte K, di cui parlavamo sopra, parole che sono potenti, evocative e ripetitive, ma molto misteriose, e che possiamo interpretare meglio ritrovandole nel poema, dove alludono alla vita oltre la morte e quindi al nucleo più profondo, alla speranza più caratteristica della nostra umanità:

«Un sole di gomma fu squassato, e tramontò; / e un nulla nero-sangue si mise a far girare / un sistema di cellule intrecciate con / cellule intrecciate con cellule intrecciate / dentro un unico stelo. E spaventosamente nitida, / sullo sfondo di tenebra, una candida fonte zampillò.» (vv. 702-707)

Arriviamo, allora, poco prima della conclusione di questo pezzo che si è perso troppe volte dietro a citazioni vere o presunte, o forse echi, rimbombi, risonanze, fantasmi, o magari semplici acufeni, a dire qualcosa del film.

B.R 2049 si pone come erede di un filone importante della fantascienza, quello distopico, con piglio autoriale e raggiungendo molti dei risultati che si proponeva, primo tra questi il riuscire a non deludere i tanti appassionati del primo film.

Un capolavoro? È un’opera che malgrado i suoi difetti, come una certa prevedibilità della trama, i dialoghi non sempre brillantissimi, un finale d’azione che sembra appiccicato, riesce pur tuttavia ad essere intelligente, elegante e spettacolare, anche senza puntare tutto su effetti speciali e colpi di scena. E che può far divertire i cacciatori di rimandi intertestuali, come avrete visto se avete avuto la pazienza di leggere fin qui.

E tutto questo senza tradire l’anima noir che fu già del predecessore, per cui è chiaro fin dal primo fotogramma che accompagneremo i protagonisti verso un finale noto e inevitabile.

Nessuna vita, umana o artificiale, permette un finale diverso: l’epilogo è certo, ed è quello che è riservato alle lacrime nella pioggia, ai fiocchi di neve al caldo della mano, che volendoli proteggere, li condanna.

E comunque, in ogni caso, «nel bene, come nel male, è il commentatore ad avere l’ultima parola» (Fuoco pallido, Adelphi, Milano 2002, pag. 30).