Canti nella camera a gas

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Il racconto di un coro di donne avviate alla morte nell’orrore folle di Auschwiz, testimonianza fortunosamente ritrovata a liberazione avvenuta

di Luigi Cataldi

 

Ad Auschwitz l’8 marzo del 1944, in una sola notte, la notte della festa ebraica del Purim, 5000 deportati cecoslovacchi, trasferiti da Terezín e imprigionati nel campo per famiglie all’interno di Birkenau, vennero sterminati. Prima le donne, poi gli uomini. L’eccidio ha anche a che fare con la musica perché le donne, già dentro la camera a gas, cantarono. Lo raccontano ben due testimoni oculari: Filip Müller, Eyewitness Auschwitz – Three Years in the Gas Chambers (Stein and Day 1979) e Salmen Gradowski, Sonderkommando, diario di un crematorio di Auschwitz (Marsilio 2014). Ambedue erano membri del Sonderkommando, la ‘squadra speciale’ nel gergo dissimulato dei nazisti, che aveva il compito di accogliere i prigionieri destinati allo sterminio, di aiutarli a scendere dai camion e a spogliarsi, di accompagnarli nelle camere a gas e poi di estrarre, portare ai forni crematori e bruciare i loro corpi. All’evacuazione del campo circa un centinaio degli appartenenti alla squadra speciale era ancora vivo. Una decina sopravvisse. Fra di loro Filip Müller, che poté testimoniare ciò che era accaduto. Ci è però giunto anche il racconto di Gradowski, il più interessante, che invece non uscì vivo da Auschwitz.

I membri della squadra speciale, per il lavoro che svolgevano non furono ben visti. Primo Levi, pur riconoscendo che «in nessun caso furono indotti ad uccidere di propria mano», li considerò «miserabili manovali della strage»; Hannah Arendt si domandava perché contribuissero alla distruzione del loro popolo e alla propria rovina. Essi stessi sentivano la sopravvivenza come una colpa. Uno di loro, Salmen Lewental, si chiede: «Perché fai un lavoro così esecrabile, perché vivi, a quale scopo vivi?». «La verità», si risponde, «è che si vuole vivere a ogni costo, si vuole vivere perché si vive, perché tutto il mondo vive. È tutto ciò che si desidera, tutto ciò a cui si è legati almeno un po’». Conoscevano tutto il processo dell’eliminazione, avevano un’idea precisa dell’entità dello sterminio e della cura con cui, dello sterminio, i nazisti cancellavano le tracce, perché erano proprio loro a incaricarsene. Sapevano di esserne i principali testimoni, quindi erano certi di dover morire. Eppure sentivano bruciante il desiderio di vivere e, di conseguenza, un profondo senso di colpa. La loro sopravvivenza necessitava di uno scopo. Alcuni lo trovarono nella scrittura. Alla liberazione del campo, le loro opere affiorarono dal terreno attorno ai forni crematori, chiuse in contenitori di fortuna, contenenti quaderni (“rotoli” li chiamò lo storico Ber Mark per analogia con quelli della sacra scrittura) sotterrati nella speranza che fossero recuperati una volta finita la guerra. È così che ci è giunto anche il racconto di Salmen Gradowski, ebreo di Suwałki in Polonia, arrivato ad Auschwitz l’8 dicembre 1942. La sua famiglia, deportata con lui, fu interamente sterminata quello stesso giorno. Lui fu invece assegnato al Sonderkommando. Vi lavorò fino al 7 ottobre 1944, quando, insieme agli altri membri della squadra, diede vita ad una strenua rivolta, soffocata nel sangue, nella quale anch’egli trovò la morte. «Tutta la disperazione che ho provato, il dolore che mi ha pietrificato, le mie sofferenze atroci non ho potuto esprimerle in altra maniera se non attraverso la scrittura», dice. E la scrittura difficilmente ha avuto ragioni più stringenti. È rivolta a noi che la leggiamo oggi, ma anche agli altri «fratelli» della squadra, che la leggevano allora. Gradowski è il loro Schreiber, scrive a nome loro: per spiegare e difendere le loro ragioni, per descrivere le loro paure, per tener vive le loro speranze. Gli scritti sono frutto e alimento delle loro discussioni. È una scrittura che aspira alla forma letteraria, come è evidente anche dal racconto di cui stiamo per occuparci, Il trasporto ceco.

Prima della notte dello sterminio, Gradowski è passato fra le «tombe-prigioni», ha ascoltato le storie dei deportati, i loro «mondi», fino alla reclusione. Poi lo sterminio, nel quale egli si sforza di vedere un presagio della sconfitta nazista. Ci sono le SS in assetto di guerra contro una popolazione di donne indifese. «Sai contro chi si accingevano a combattere? Contro il nostro popolo di Israele! Ben presto sarebbero arrivate delle madri ebree con i loro piccoli stretti al petto, o conducendo per mano dei figli più grandicelli, e spaventate, disorientate, avrebbero volto gli occhi verso gli alti camini». Giungono le donne. I «fratelli» le aiutano a spogliarsi. Gradowski indugia sulla bellezza dei loro visi e dei loro corpi; ne prevede la sorte. Ma ai suoi occhi, anche nel degrado estremo della loro nudità, le vittime restano esseri umani, ciascuno dei quali con la propria presenza evoca un mondo. «Si ha l’impressione che dei mondi interi, si siano denudati e siano arrivati qui». Una madre e una giovane ragazza inveiscono contro le SS e predicono la sconfitta tedesca. Vengono brutalmente uccise. Subito dopo, dalla camera a gas, si sente il canto dell’Internazionale. «Le fondamenta traballanti del mondo stanno già tremando, non siamo niente, siamo tutto. L’ultima battaglia divampa, marciamo. Internazionale domani sarà la razza umana». Gradowski trova concordanza fra queste e le parole della ragazza uccisa: una speranza di vendetta. Sente (o immagina?) il terrore suscitato negli ufficiali tedeschi, che si accresce fino a diventare «cupa angoscia» con «La Tikva» (Hatikvah, inno sionista, oggi inno nazionale di Israele). «Tutti cantano con fierezza e con forza l’inno nazionale» che alle sue orecchie suona come la sconfitta del nazismo e la certezza che gli ebrei «daranno vita a un grande esercito il cui unico scopo sarà di vendicarsi». In speranza di vendetta, dunque, per Gradowski si mutano le parole che l’inno pone in tonalità minore sulla mesta melodia, che ha qualche parentela con La Moldava di Smetana: «Finché dentro il cuore, l’anima ebraica spera e l’occhio guarda a Sion, verso l’oriente lontano, non è ancora persa la nostra speranza, due volte millenaria, di essere un popolo libero nella nostra terra, la terra di Sion e Gerusalemme». Segue l’inno cecoslovacco. «Questo canto esprime la certezza che tutti i popoli del mondo saranno presto liberati», dice Gradowski. Il canto era composto dai due inni, Ceco e Slovacco, cantati in sequenza. Il primo è costituito dalla prima strofa di una canzone di František Škroup, appartenente a una commedia di Josef Kajetán Tyl (Niente rabbia e niente lotta, 1834). «Dov’è la mia casa? L’acqua scroscia sui prati, le fronde frusciano sulle rocce, nel giardino risplende il fiore di primavera, il paradiso terrestre a prima vista. Questa è la splendida terra, la terra ceca, casa mia». L’altro, di Janko Matúška del 1844, scritto in occasione della cacciata degli studenti di lingua slovacca da Bratislava, inneggia al risveglio nazionale. «Sopra la Tatra i fulmini lampeggiano, i tuoni colpiscono selvaggiamente. Lasciate che passino, fratelli, si perderanno, gli Slovacchi rivivranno». Gradowski sente le donne ebree come solidali con il popolo cecoslovacco oppresso dallo stesso nemico. Intanto «sotto, nell’enorme bunker [la camera a gas], si continua a cantare. Hanno intonato il canto dei partigiani [l’anonimo Gli slavi si son liberati?]. Verrà un giorno in cui essi saranno la mano che porterà la vendetta. Vendicheranno i padri, le madri, le sorelle, i fratelli, che sono morti innocenti. Tutte le migliaia di vite sterminate quest’oggi». Poi «il bunker» viene chiuso, ma il canto delle donne continua. «Vogliono farsi trasportare dall’onda di queste note e, sorrette da loro, compiere il breve tragitto che divide la vita dalla morte», dice Gradowski. Vivono, con i canti, aggiungerei, ciò che non vedranno mai, ma di cui sono certe, che sentono come lì presente: la sconfitta dei loro carnefici, la loro libertà.

 

1.

Salmen Gradowski con la moglie

1935