C’era una volta la scuola

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A proposito della didattica a distanza altrimenti detta DAD

di  Carlo Srpic e Anna Maria Vinci

 

Molte polemiche in questo periodo attraversano sia il mondo degli adulti sia quello dei giovani a proposito della DAD (tanto per sfoggiare acronimi alla moda). Lo stato di necessità, causato dalla pandemia, sembra aver travolto tutto in un attimo.

Molti insegnanti, e i loro studenti, hanno dovuto imparare in pochissimo tempo linguaggi nuovi, diversi dal consueto andamento scolastico. Salvo poche eccezioni, l’uso di nuove tecnologie sembrava un orizzonte lontano, verso cui dirigersi, ma con calma. In breve si è aperta invece una voragine che ha risucchiato vecchie abitudini e stanche lentezze. Il passaggio è stato improvviso e certo non facile, come sappiamo. Due cose sono certe: in primo luogo, l’impegno di docenti e alunni è stato molto forte, e poi la svolta è stata troppo grande perché tutto possa ritornare «come prima». E com’era «il prima»?

C’era una volta la Scuola con la S maiuscola… Davvero? E di quale scuola c’è nostalgia? Di quella ordinata, rigida e molto selettiva, vantando un’alta qualità d’insegnamento? Oppure di quella senza la S maiuscola, ma allo stesso tempo ricca di valori, di saperi e di affetti?

Non è facile rispondere, perché il passato non si ripete mai allo stesso modo. Racconterò del secondo modello di scuola, perché penso che ci possa dire ancora qualcosa per una futura ricostruzione.

In quest’ultimo caso era d’obbligo un’ostinazione e una tenacia senza limiti, ma, soprattutto, era necessario condividere un’idea di comunità inclusiva e al contempo affamata della vita del mondo esterno. L’abolizione delle classi differenziali nel 1971, fu un segnale forte, a seguito dell’esperienza di don Milani e del clima politico – culturale che si respirava in quegli anni. «Integrazione» era allora la parola d’ordine, ma mettere in pratica tale concetto non era facile. Bisognava accogliere i disabili, far capire che essi erano fonte di arricchimento per tutti; accogliere i ragazzi in difficoltà, sia quelli delle più disastrate periferie sia quelli nascosti nelle pieghe del disagio urbano; bisognava convincere i genitori a mettere al centro delle loro preoccupazioni la scuola e lo studio, pretendendo nello stesso tempo edifici scolastici belli e accoglienti. Saltavano i vecchi criteri di valutazione, mentre uno degli obiettivi principali era quello di abbattere i livelli di dispersione scolastica. Era necessaria, in poche parole, una rivoluzione copernicana di cui tutti si sentissero partecipi (insegnanti, genitori e alunni).

Ignorare tale fermento, poteva essere la soluzione più semplice e per molti lo fu. Per altri (docenti e genitori), il desiderio di cambiamento fu così forte da impegnarli in vere e proprie battaglie civili: cito le manifestazioni a Trieste di Borgo San Sergio dei primi anni Settanta, per ottenere l’edificio scolastico ripetutamente promesso ma mai costruito; ricordo il preside Giancarlo Roli che riportava i ragazzi a scuola, passando a raccoglierli nei posti più malfamati; ricordo il legame fortissimo tra docenti e genitori; ricordo la commozione sincera di Roli di fronte agli allievi più deboli e meno protetti da condizioni familiari non favorevoli. Tutto ciò è accaduto. È stata un’isola felice: è stata un’esperienza durata troppo poco, ma è stata come la storia raccontata da Jean Giono, L’Homme qui plantait des arbres: minuscole ghiande piantate con pazienza e ostinazione per una foresta di querce che attendeva di nascere.

Si conosce con la mente e col cuore, con gli sguardi che vedono al di là delle apparenze, con la curiosità e la voglia di capire i più giovani, «figli nostri eppur così diversi». Le mura dell’edificio scolastico non possono essere barriere, quanto piuttosto un luogo di accoglienza per quanti cercano di ritrovarsi in una comunità.

Per ricostruire (o costruire ex novo) ci vorrà del tempo e, soprattutto, il desiderio di rimettersi in gioco.

Propongo ai lettori un piccolo ritratto, comparso anni fa sulla rivista Il Punto della Comunità di San Martino al Campo (che ho modificato alcuni passaggi), scritto dall’allievo di Giancarlo Roli,  Carlo Srpic, che non c’è più e nulla sa di quest’ultima battaglia.

 

La diagonale

 

Cari lettori, non lasciatevi trarre in inganno dal titolo di questo articolo. Non si tratterà infatti della diagonale, di calcolare la diagonale di un quadrato né di quella di un rettangolo. Ma la diagonale c’entra, eccome. Capirete.

Già sapete che ho svolto la mia vicenda di insegnante e di preside in più scuole. In una di queste viveva D. Attenzione, ho scritto viveva perché per lui la scuola non era un luogo da frequentare solamente. Lui la amava, amava i suoi compagni, la sentiva sua. Una seconda casa. La scuola era buona parte della sua vita.

D., un ragazzo speciale verso il quale la natura era stata ad un tempo madre e matrigna. Non possedeva il linguaggio verbale né poteva far di conto così come altre attività di cognizione astratta gli erano precluse. In questo la natura l’aveva fortemente penalizzato. Sapeva invece voler bene in modo spontaneo, primario. Caldo, ricchissimo e super popolato era il suo mondo affettivo. In ciò la natura era stata generosa con lui. Completava il quadro una madre straordinaria, in grado di capirlo in tutto e per tutto. Una madre che aveva raccolto la sfida della natura e aveva rilanciato sfidandola a sua volta e consentendo a D. di vivere la sua normalità al massimo livello possibile. Certe volte, ognuno di noi percepisce un’altra persona come un modello di vita, un esempio e un ideale. Un pezzetto del mondo platonico delle idee che si materializza. Bene. Per me questo era la madre di D. L’archetipo di tutte le madri. Sia chiaro che con queste riflessioni nulla voglio togliere alle tante madri che vivono la propria condizione con grande sofferenza legata alle infinite storie della vicenda umana.

Uno dei momenti e degli aspetti più emozionanti e fertili della mia vita professionale è stato conoscere D., vivere con lui. Lo posso affermare con certezza. Infatti, sin dai primi giorni, abbiamo simpatizzato. Così, spontaneamente.

Quando giungevo a scuola, se mi vedeva, mi si attaccava e camminava sempre al mio fianco. Lo chiamavo: «la mia ombra» e lui se la rideva di gusto. Altre volte lo raggiungevo nei laboratori e trafficavamo assieme con i lavori che gli erano stati assegnati e guai se un’altra ragazza o ragazzo veniva da me a chiedere di farsi aiutare. D. si ingelosiva e mi tirava per la maglia oltre a spingere in parte il compagno o la compagna. Esprimeva la sua volontà con assoluta e inequivocabile chiarezza. E al caso, lui sempre dolcissimo, assumeva un’espressione corrucciata.

Eravamo diventati la coppia più famosa della scuola: il preside e D. Quando ci vedevano assieme, professori, bidelli, assistenti e allievi sorridevano con gentilezza e ci salutavano: «Buongiorno preside, ciao D.» e noi a rispondere con un sorriso.

E la diagonale da cui è partito quest’articolo?

La scuola disponeva di spazi esterni tra cui un campetto di pallacanestro. Ovvio che, invece, questo spazio venisse usato come campo di calcio. Nell’intervallo tra attività mattutine e pomeridiane si svolgevano memorabili partite tra i ragazzi cui partecipavamo, uno per squadra, io e il vicepreside. Per quel che mi riguarda, ero ritornato giovane… E pure il vicepreside…

Chi mi affiancava sempre durante il gioco? Ovvio, D. Lui non giocava a pallone. Mi seguiva. Anzi io seguivo lui. D. non era in grado di muoversi sulla base della dinamica del gioco. Lui, a causa dei suoi problemi percettivi, spostava un po’ il capo a destra e seguiva la traiettoria. Si muoveva cioè in diagonale, sempre e solo in diagonale, tagliando il campo da un vertice a quello opposto, imperturbabile in mezzo a compagni e pallone che talvolta lo colpivano. E io? Dovevo pur tutelarlo al massimo da eventuali infortuni e quindi avevo imparato a muovermi in diagonale davanti a lui, solo in diagonale come se andassi diritto avanti e indietro. Cari lettori, un’esperienza non facile.

Ciascuno di noi segue nella propria vita più direzioni: va a destra, a sinistra, sale scende, va diritto alla meta, va a caso e così via.

  1. una sua precisa direzione ce l’aveva: lui andava in diagonale. Lui, che non poteva applicare le formule matematiche per calcolarla, nel suo muoversi disegnava sempre una diagonale. E, credetemi, era geometricamente perfetta.