Per caute sopravvivenze

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Un piccolo dizionario

di Malagigio

 

DIO

Il governatore della Florida, Ron DeSantis c’informa con un video che fa politica solo perché è stato mandato da Dio: è l’ultimo di una lunga lista. La cosa pare abbia seccato l’ex-presidente degli Stati Uniti Donald Trump: da quando in qua Dio parla con qualcun altro senza il suo permesso? La gelosia è una brutta bestia. Ma dobbiamo rassegnarci: Dio è molto ciarliero.

Ai tempi della guerra in Iraq, il presidente George W. Bush Junior (odiava che lo si chiamasse Junior) non era geloso che Dio parlasse sia con lui che col suo amico, il premier inglese Tony Blair, anche perché diceva a tutt’e due la stessa cosa: che bombardare Bagdad era una buona cosa. Invano il papa, Giovanni Paolo II, proclamò che quella era una guerra «contro Dio»: come faceva a saperlo? Dio non parla coi papi.

È interessante questa recente disponibilità di Dio a parlare solo con un certo tipo di persone: invece di nullatenenti come san Francesco, potenti, ricchi, meglio se tenutari di arsenali atomici. Mai con uomini di chiesa. Quanto a riconoscere gli impostori, se qualche persona comune dice che certe cose riprovevoli gliele ha ordinate Dio, per nostra fortuna di solito finisce in prigione. Oggi sappiamo tutti cosa succederebbe ad Abramo se venisse sorpreso dai carabinieri mentre sta per sgozzare Isacco. Vabbè un bombardamento, ma uno di famiglia…

 

MERITO

Le brave mamme di una volta, quando la creatura loro sbatteva il naso perché aveva fatto qualcosa di spericolato, dicevano invariabilmente: «Te lo meriti!».

Il Ministero che si occupa delle scuole ha deciso di cambiarsi il nome – gli succede spesso – diventando «Ministero dell’Istruzione e del Merito». L’aggiunta di Merito potrebbe suonare ridondante, e cioè una specificazione non necessaria: come dire «Ministero della Difesa e dei colonnelli», o «Ministero della Salute e dell’aspirina». Non lo dice già la Costituzione che le scuole servono, tra le mille cose, a premiare chi si merita? Se no, i maestri e i professori – queste oneste macchine dispensatrici di voti – chi ci stanno a fare?

Il cambio del nome del Ministero della Scuola ha suscitato un’accesa discussione: di quelle fatte per non finire mai, proprio come piacciono a noi italiani.

Un po’ di storia: la parola meritocrazia nacque per dire una brutta cosa. Fu coniata nel 1958 dal sociologo Michael Young per il suo romanzo distopico L’avvento della meritocrazia. Young ci fa ragionare su una domanda semplice: una società meritocratica premierà quelli meritevoli in cosa? Basterà la misura – già problematica di suo – del Quoziente Intellettivo? E se poi uno è vigliacco? O disonesto? O lascia le vecchiette stramazzate in mezzo alla strada perché sta risolvendo il teorema di Pitagora? Il coprolalico Mozart sarebbe ammesso all’esclusivo club della meritocrazia? E l’autistico Leonardo? E il ciclotimico Van Gogh?

Ma il lemma meritocrazia ebbe successo proprio perché il suo significato iniziò a colorarsi di rosa: soprattutto dopo che il premier inglese Tony Blair lo usò per dire che il potere (che in greco si dice crazia) di quelli che meritano è una buona idea. Invano l’inventore della parola provò a obiettare.

Gli obiettori della meritocrazia hanno una storia lunga come la parola merito. Intanto chiedono: «Chi ci dice che il meritevole non lo sia solo perché è vissuto in condizioni stupende? Chiaro che i figli dei ricchi avranno avuto coccole, dolcetti e vestitini migliori, e magari anche libri, maestri e viaggi all’estero. Ritrovarsi degni di merito così è facile come rubare in chiesa.

Strano come ci complichiamo la vita con problemi risolti da tempo: basterebbe leggere un po’ di Platone. Il quale, nella Repubblica – qualcosa che pare si studiacchi ancora nei licei –, fa questo maieutico ragionamento: è una cosa buona che un bimbo erediti tutte le fabbriche della Nutella e un altro invece, bello e vivace come lui, solo il mutuo del papà bidello a Vicenza? Se uno si ritrova ricco col succhiotto di platino griffato Dior e l’altro con la tettarella di gomma Lidl, potremmo dire che questo dipende dai diversi meriti delle due creature? – Facile rispondere di no: è stata pura fortuna – il contrario di merito, c’insegna Machiavelli -, e che è dipeso solo dal punto in cui la miope cicogna ha precipitato i bebè.

Inflessibilmente maieutico, Platone conclude: non avendo nessun bimbo al mondo meritato ancora alcunché, le ricchezze di tutti i padri vanno messe in comune e divise egualmente tra tutti i bambini. E, se si va in gita scolastica a Machu Picchu, ci vanno o tutti o nessuno. Allora sì che si vedrà chi merita. Ma Platone era un comunista.

Il filosofo inglese Whitehead ha scritto con cognizione di causa che tutto il pensiero occidentale viene da Platone: tutti i pensieri meno questo.

 

PACCHIA

Il lemma pacchia viene da un verbo che non si usa più (peccato): pacchiare, che vuol dire mangiare con ingordo godimento nella più spensierata abbondanza. Chi si comporta così è definito pacchiano, cosa che nessuno vuole apparire. Si usa in compenso molto l’espressione «È finita la pacchia!», che – direbbe Freud – vorrebbe essere un richiamo al fastidioso principio di realtà. Nella pacchia vi sarebbe quindi l’illusione di uno stato di grazia che è giusto venga smagato.

“Il” nuovo primo ministro italiano, Giorgia Meloni, durante un comizio a Milano aveva già avvertito l’Europa che per l’U.E. era «finita la pacchia». L’Europa – nel senso di Unione Europea – ha, esclusa l’Italia, 380 milioni di abitanti; l’Italia 59 (e un debito di tremila miliardi di euro): di quell’avvertimento, dobbiamo riconoscere il coraggio.

Già Matteo Salvini, nel 2018, aveva avvertito gli immigrati clandestini che per loro era «finita la pacchia». Non c’era infatti italiano che non invidiasse un immigrato clandestino. Si può quindi notare che nessuno dice di vivere nella pacchia. La pacchia è sempre quella degli altri.

Dobbiamo sperare che non diventi presidente della Banca Europea un tedesco del tipo Von Salvinen: uno che venga a dirci che per noi italiani, che abbiamo tremila miliardi di debiti e vorremmo farne ancora, «è finita la pacchia», e che ci tocchi, come diceva di sé Oscar Wilde, «morire al di sopra delle nostre possibilità».

 

ROVESCIO

Nel settembre 2021, l’artista Francesco Visalli si è accorto che una tela di Piet Mondrian, New York City I, è stata esposta per oltre settant’anni rovesciata.

Nessuno l’aveva notato. Del resto, come molte opere del pittore olandese, è un quadro in cui si vedono solo linee orizzontali e verticali che s’incrociano: il concetto di alto e basso può diventare problematico o addirittura relativo.

Si dirà che sono cose che capitano. Era già successo a Le Bateau di Matisse, quando nel 1961 al MoMA di New York fu esposto rovesciato: ma dopo 47 giorni qualcuno lo notò.

Per fortuna – o purtroppo? – esiste una foto dello studio di Mondrian, del 1944, in cui si vede New York City I sul cavalletto inequivocabilmente capovolto rispetto a come era – ed è – esposto.

È interessante la reazione della direttrice del museo, Annette Kruszynski, che ha detto: «se la raddrizzo, la distruggo». Pare a causa degli stress meccanici a cui sarebbe sottoposta l’opera facendole fare, per quanto delicatamente, quella mezza capriola. Certo meglio un Mondrian rovesciato che un Mondrian morto.

Morale: New York City I resterà a testa in giù – leggiamo nel sito Art Vibes – anche «per non interferire con una storicità acquisita e accettata da gran parte della critica». Quando si dice la forza dell’abitudine.

Già il ministro della propaganda del Terzo Reich, Goebbels diceva che una bugia ripetuta a lungo diventa una verità: la verità è solo una questione di tempo.

Rovesciare le cose, non solo nell’arte, potrebbe essere una pratica da tenere in considerazione. Pare che Kandinskij ebbe l’Eureka dell’arte astratta dopo aver visto quanto bello fosse un suo quadro – ancora figurativo – messo per caso a testa in giù. Il pittore tedesco Georg Baselitz è famoso soprattutto per le sue figure umane esposte capovolte. I critici trovarono nella cosa significati arcani, allegorici e universali. L’onesto Baselitz disse sempre che s’era messo a rovesciare i quadri perché altrimenti nessuno l’avrebbe notato.