CERCARE UNA FORMA
Slataper e l’idea di formazione dei giovani

ilmiocarsoQuel triplice Vorrei dirvi, con cui inizia Il mio carso è fra gli attacchi più notevoli e originali della letteratura italiana del ‘900. Di Slataper esprime un tratto fondamentale della personalità umana e intellettuale: il bisogno di un discorso allocutorio, del dialogo. Nei suoi taccuini confessò di non saper tenere il monologo di un diario.
Nella sua breve esistenza, Slataper ha cercato maestri, tanto quanto si è pensato egli stesso dentro una dimensione culturale pedagogica, da educatore. Maestri entusiasmanti, nelle sue letture predilette, da Goethe a Hebbel a Nietzsche, da Leopardi a Dostoevskij, da Tolstoj a Ibsen. O da cercare negli anni di studio e di cultura militante del soggiorno fiorentino, tra l’Istituto di Studi Superiori e La Voce – e qui le delusioni tra i Papini, i Prezzolini, i Soffici alla fine non furono poche; e poche le eccezioni, Amendola -.
Giovanissimo educatore o, come egli preferiva dire, “vivificatore”, si pensava con gli amici triestini, Marcello Loewy, Guido Devescovi, poi i fratelli Stuparich, e con le amiche, Anna, Elody, Gigetta, Maria. Epistolario importante e tormentato, quello di Slataper, che lascia traccia intensa di impeti pedagogici talora fin pedanti e scoramenti di autentica fragilità, segni di un percorso di progressiva formazione giovanile con le sue inquietudini profonde, le contraddizioni dell’età e una personalità acutamente sensibile ai processi storici e alla cultura del tempo, alle trasformazioni economiche, sociali e culturali che anche in Italia segnano gli esordi del Novecento. Con lo sguardo rivolto soprattutto a Trieste, dove occorreva esser – scriveva – “profeti in patria”.
Formare formandosi. E cercare maestri: nuovi, diversi da quelli della generazione precedente, già post-risorgimentale, ma in Slataper, anche, l’idea chiara di passare al vaglio una tradizione senza distruttive retoriche futuriste, stroncate in un suo articolo sulla Voce e smascherate nel loro legame regressivo con i moderni processi sociali e culturali di industrializzazione di massa. Nel 1909, anno di avvento del futurismo marinettiano, che pure nei teatri di Trieste dà teatrale scandalo di schiaffi pugni e revolverate al “chiaro di luna” (peraltro benevolmente trattati sul Piccolo da Silvio Benco), dalle colonne della Voce Slataper chiama a raccolta i “giovani intelligenti d’Italia” e li invita a prendersi, piuttosto, tutta la difficile responsabilità di «essere moderni!» – scriveva – di «comprendere in sé le forme vitali del nostro tempo». Il che voleva dire storicizzare se stessi e la propria gioventù, comprendere di vivere in un’epoca in cui «una donna» poteva ben «schifarsi al contatto dell’uomo», «un operaio» estrarre «dalla sua miseria esasperata un nuovo mito feroce», un «prete» testimoniare nelle sue stole «dai secoli rosicchiate» il prossimo tramonto del sacro, e prendere coscienza che nazioni e popoli stavano lottando a «buttarsi giù dal trono della terra a forza di sprangate di ferro e palate di carbone». E dunque prima di tutto Slataper invita i giovani a vivere il proprio tempo nello studio e nella preparazione seri e consapevoli: a non aspirare, invece, alla presunta immediatezza spontanea della poesia e dell’arte, al successo letterario precoce, buoni già allora a foraggiare un mercato moderno delle lettere che promette glorie effimere e quarti d’ora di notorietà.
Nell’epistolario Slataper svela, così, tra proiezioni di un destino da poeta, dolorose autocritiche sul proprio “letteratismo” e volontaristiche opposizioni alla debolezza e al disimpegno intellettuale complici di un clima di decadenza e di egotismo individualista, uno dei nodi acutamente conflittuali della sua formazione: il dissidio difficile da comporre in superiore unità dell’etico e dell’estetico. E di conflitto e dissonanze sarà nutrita la sua visione del mondo: tra «carso e lastricato» cittadino, tra «italiani e sloveni», «salotto e città vecia», «commercio e letteratura».
Cercare una forma, dunque, che concilia, che media. Che è la «genziana» carsica (e leopardiana) che nasce tra le schegge della pietra. Una forma che dà un ordine nuovo a un tutto da comporre e costruire, e dei confini all’io, ché non straripi in “forsennato orgoglio”. E Slataper si appunta le sue perplessità sul fatto che la dialettica hegeliana o quella crociana o l’attualismo gentiliano offrano la soluzione giusta al problema.
Costruzione di un ordine, senso del confine che non annulli l’altro e il diverso nell’immaginario infinito del proprio io (quanto gli disse tutto ciò la tragedia di Anna Pulitzer!) sono segni precisi della vita e della ricerca intellettuale di Slataper. Problema della formazione di identità, e non solo individuale, se egli talora la chiama anche “patria”: un «nido disfatto» e una «patria lontana», un «viaggiare» – come scrisse – incerto e nostalgico verso la sua difficile costruzione.
Non altro era il problema che assillava un giovane coetaneo, anche lui cittadino asburgico, György Lukács quando, proprio a Firenze nel 1910, nella Firenze in cui Slataper studiava e redigeva La Voce, portava a compimento il suo capolavoro giovanile L’anima e le forme. Se è vero che la forma non può contenere ed esprimere la vita, altrettanto vero è che trovare una forma è indispensabile, e la rettorica occorre riconoscerla e attraversarla, poiché la forma ha una sua virtù, e necessità: anche per il giovane Lukács essa trova le immagini-concetto di ordine, limite, confine. O di lavoro («lavorare non dev’essere un sacrificio, ma un’espressione viva della propria individualità», scrive Slataper nel 1914 a Giani Stuparich): e in ciò, frammentariamente Slataper e in modi ben più organici e approfonditi Lukács, i due giovani paiono aver punti di contatto: ad esempio nell’idea che il tragico fosse la forma moderna di quel loro esser giovani di inizio secolo e di quel loro cercare la forma nella vita moderna.
«Impersuaso e contraddittorio», – come ebbe a definirsi – Slataper trovò un’immagine allegorica a dire dello sforzo e delle inquietudini di questo suo cercar una forma da frammenti e lacerti, spesso informi e opachi, e tutti da comporre: in un passo dei suoi taccuini, pochissimo citato e di incerta datazione, scrive: “Bisogna costruire la propria vita: come il tagliapietra, seduto sulla strada tien con le gambe ricurve il mucchio di breccia. E tutte le immagini diventano insieme dure come un’incudine su cui si picchia.
Le immagini che non illimpidiscono: perché non si fondono come in una soluzione. E scrivo di ciò, con ciò.”
Che è immagine dell’intellettuale e una dichiarazione di poetica, buona a rileggere ancora una volta Il mio carso, la sua ricerca di una forma letteraria, la sua tensione tuttavia insoddisfatta ad essere un racconto di frammentaria, inconclusa formazione, la sua mescolanza di stili e generi e tempi, racconto tradizionale, inserti visionari, lettera e diario, accensioni liriche e torsioni espressioniste, memoria e attualità, autobiografia e mito, panismo e desolazione, favola e storia.
Una vita segnata dall’inquieta ricerca di un principio di formazione si riflette anche nelle pagine di Slataper dedicate agli studenti e alla scuola.
Studente dell’Imperial-regio ginnasio di Trieste, Slataper consegna nelle mani di Angelo Vivante, l’intellettuale socialista di maggior spessore della Trieste dei primi del ‘900, allora direttore del Lavoratore, l’articolo La tirannia delle norme scolastiche:
“Date maggior libertà ai giovani, fate che anche la vita, non solo la scuola, sia maestra del nostro avvenire, abolite tutte le norme che li rendono schiavi, ribelli e audaci, dimostrate coi fatti che voi rispettate i nostri legittimi diritti, come imponete i doveri, e allora non vedrete più gli scolari infrangere la disciplina. Così i giovani non nutriranno più contro chi non ha colpa – contro i professori – quei sentimenti che talvolta, contraccambiati, rendono impossibile lo studio calmo, fecondo, solerte, nella reciproca benevolenza; rendono la scuola un martirio, in cui germogliano l’ipocrisia, l’astio, la lotta, l’astuzia e non i sentimenti buoni della rettitudine umana.”
26 gennaio 1905, diciassette anni nemmeno compiuti. E lo Slataper più maturo già si vede. Si vede nell’elenco delle conseguenze provocate dalle norme scolastiche repressive, dove accanto alla condizione di studentesca “schiavitù“ compaiono anche gli esiti, considerati altrettanto negativi, della ribellione e dell’audacia. Insomma è già abbozzata l’idea di una comunità scolastica improntata sì al dialogo e al lavoro comune ma nel rispetto dei diversi ruoli, nella costruzione di un patto generazionale non facile e che tuttavia scongiuri esiti tanto di conflitto istituzionalizzato quanto di rivolta sterile, che costituisca un ambiente di studio autenticamente formativo e produttivo ed educhi alla formazione etico-civile della personalità, contro l’ipocrisia, la competizione, le astuzie.
Un altro appunto di taccuino, anch’esso senza data, ma credo tardo, per la compostezza asciutta della scrittura, conferma questa idea di una scuola formativa in cui il rapporto tra chi insegna e chi apprende non è immediatamente comunitario e spiritualmente omogeneo, come – e lo vedremo poi – nelle contemporanee teorie dell’attualismo pedagogico.
“Ma c’è un professore che ho avuto per pochi mesi, ma a cui penso con affetto. Era alto e diritto e severo. Così nervoso, che nella furia diventava sangue e spaccava con la stretta della mano lo schienale d’una sedia. Buttava addosso la creta, dando un urlo da metterci pietà. Si stava zitti, frenando il pianto o il riso; ma un professore non deve urlare come una bestia. Egli guardava le parole scritte sulla lavagna; poi riprendeva la lezione. Dopo un quarto d’ora si fermava, e domandava scusa davanti tutta la classe. Staccava lentamente le parole, a bassa voce, vergognoso di dover parlare di sé in iscuola. Con lui noi ragazzi e lui professore si diventava uomini.”
Diventare uomini. La scuola è questo, o non è. E il patto generazionale passa anche attraverso il conflitto e l’urto, se, come Slataper credeva della vita in generale, vi è una forma di conflitto che vita produce.
D’altra parte, delle conciliazioni idealistiche dai possibili esiti troppo giustificazionisti della razionalità del reale, come anche di una idealistica logica dei distinti, Slataper, attirato e insieme insoddisfatto, pur tuttavia diffidava.
Ripensando Hegel, Slataper nei suoi appunti riflette sui rischi di un’educazione sociale:
“alla passività di fronte all’esistente, e all’opportunismo ambizioso di fronte al trionfante. È proprio mostrando il dolore della storia umana che s’educa a non fuggirlo. Il fallito (e tutti noi, in partenza, siamo falliti) è dentro, attivo, nella storia. Perciò per fare la storia bisogna innanzitutto schiarirsi nella viva realtà, soprattutto in quella che il corso della storia umana ha escluso. Il quale costantemente vale per il passo ulteriore.”
Leggendo Croce, ne contestava la forma del suo idealismo in una lettera a Soffici del 1911, in cui affermava invece il “senso religioso della vita per cui l’uomo non può esser concepito che come un tutto non dissezionabile. Cosa significa quest’uomo morale, logico, economico, estetico? L’uomo è uno, e qualunque sia la sua espressione, in questa è contenuto tutto.”
E negli appunti, sempre nel 1911: “Io, p. es., non scrivo mai un articolo di estetica, ma bado sempre all’uomo e alla storia. Non so concepire niente se non completo.”
Umanesimo integrale e senso complesso, niente affatto lineare, della storia divengono categorie valoriali che Slataper declina anche nelle idee di formazione scolastica.
E se Croce va in parte ripreso è, semmai, per dar contro alle tesi di Gentile nel suo Sommario di pedagogia del 1912-13 (che avrebbe ispirato anche la riforma del ’23), e ad una pedagogia attualista (verso cui inclinavano invece Carlo Stuparich e Biagio Marin) che per Slataper rischia di illudere con facili e impazienti «genialismi», predica una comunione spirituale quasi mistica e in fondo artefatta tra maestro e scolari eliminando differenze, ruoli, e necessari momenti di umano e generazionale conflitto e in cui, scrive Slataper, «l’interesse e il calore è tutto dalla parte del perenne crearsi dell’Io, e non della sua disciplinata continuità». Il testo, del 1914, si intitola La scuola è tradizione e se l’attualismo pedagogico gentiliano è pur giustificato in ragione della volontà di spezzare il formalismo burocratico della scuola italiana, Slataper smaschera con lucidità un pericolo nell’idea gentiliana di un’indistinta autoproduzione formativa dell’io comune maestro-scolari, quello di creare un rapporto con la tradizione poco attivo e poco critico, indifferenziato e non problematico. E della tradizione Slataper offre con chiarezza il valore formativo, tanto anti-burocratico quanto anti-anarchico: “Burocrazia è continuità in quanto inerzia e pigrizia; tradizione è continuità in quanto atto e lavoro. La tradizione è obbligo e responsabilità; la burocrazia è orario e scaricabarile. La burocrazia è letto stabile di fiume senza fiume; la tradizione è letto di fiume e fiume: una cosa sola che fissa in sé il suo mutamento. La burocrazia nasce, anche storicamente, quando la tradizione muore. La burocrazia è la tradizione dell’anarchismo. Tutta la vita nostra d’oggi, anarchica, è pregna di burocrazia. Necessaria opera, dunque, combatterla. E soprattutto nella scuola. Ma bisogna badare che questa ottima propaganda non dimentichi o non faccia dimenticare l’importanza della tradizione e dell’autorità nella scuola.”
Il valore dell’idea di tradizione, come principio della formazione scolastica, che Slataper afferma è dunque smascherante: demistifica il nesso, sottile quanto le più volte occulto, che allaccia burocrazia e anarchismo, e produce tradizione falsa, quella che forma le menti a un’istituzionalizzazione inerte e passiva, burocratica o anarchica che essa sia. Quanto in queste riflessioni tornino e riecheggino le idee-chiave di Slataper sulla creazione di un ordine, di confine, di lavoro in quanto principi della forma e della formazione pare ben evidente.
Slataper scrive a Giani Stuparich (Pasqua del 1914) di credere poco alla novità della scuola «gentiliana e lombardiana», che ha l’importanza di «umanizzare il maestro, e dimentica per strada […] che il maestro, che la scuola è bensì vita, ma in senso affatto speciale, dove deve regnare la personalità d’uno»: se manca «un po’ d’ipse dixit agli altri, più immaturi, non c’è scuola, non c’è sviluppo vero di personalità».
Perplessità ragionata, quella di Slataper sulla comunione gentiliana tra docente e discente, di “spiriti” che si autocreano nell’atto pedagogico comune. In una lettera a Stuparich del 1913, quel «niente, camuffato da metodo» è immagine estremamente chiara: “Naturalmente se si potesse vivere come vogliono i gentiliani negli scolari, con ognuno degli scolari, la cosa sarebbe ideale; ma poiché è un postulato, è mille volte meglio che gli scolari sentano oppressione, magari difficoltà nel maestro, piuttosto che un niente, camuffato da metodo. E credo anche che la scuola debba riflettere un po’la vita: dove s’impara con dolore, con ostacolo, con lotta: non succhiando latte e miele. Importa la personalità del maestro…Questo concetto della responsabilità andrebbe portato nelle scuole.”
Lesse bene Marino Raicich quanto in taluni passaggi della riflessione pedagogica di Slataper vi fosse una qualche anticipazione di certe pagine gramsciane nel carcere «sull’insegnamento elementare e il suo dogmatismo necessario[…] a proposito della riforma Gentile».
Tanto più ciò è vero a proposito di quelle altre pagine in cui Gramsci rifletteva sulla necessaria messa in discussione, entro i moderni processi della società di massa, del primato nella scuola della formazione classicamente umanistico-letteraria e insieme rilevava, tuttavia, la difficoltà notevole di trovare un suo valido sostituto formativo generale. E di un ideale formativo leonardesco scriveva, nelle lettere, al figlio.
Nell’articolo Per l’università commerciale “Revoltella”, del 1914, mai pubblicato causa lo scoppio della guerra, Slataper porta ad esempio di modernità formativa la Bocconi, l’Exportakademie di Vienna, il Kolonial-Institut di Amburgo, l’ Akademie für Sozial-u. Handelswissenschaften di Francoforte, possibili modelli di ricerca di un principio di unione fra educazione formativa insieme storico-umanistica, sociale e tecnico-commerciale-industriale. Vi indica con decisione il «centro» educativo nella formazione storica, «sia pure di storia contemporanea, di storia che interessa vivamente non solo la nostra mente ma i nostri utili, di storia non cronologica e dinastica, ma delle capacità e movimenti di popoli.» Ecco, dunque, nel concreto, una possibile riduzione del conflitto tutto borghese fra economia e cultura, di quella loro inerte divisione di funzioni all’interno della società, che Slataper aveva definito tragico nella storia di Trieste, e, a iniziare dalla formazione studentesca, l’avvio di una moderna tradizione di coltura. “Da noi la coltura è ancora troppo sinonimo di “professore” e “filologia”, come commercio di “buon naso” e “destrezza”.[…] A ciò occorrono due cose: che i “letterati” o rinunzino alla “letteratura” o pur s’accontentino di lavorare in quel margine della vita quotidiana che può essere spesso margine di povertà spirituale e di eruditismo scolastico, che qualche volta però è anche il margine dove silenziosamente si prepara l’avvenire anche pratico delle nazioni. Deve venir su una generazione di giovani colti che s’interessino meno, magari, di Foscolo, o Petrarca, o Schiller, o che so io, ma assai più della storia integra della nazione italiana, tedesca, ecc.; e che anche i professori di letteratura (bel titolo!) si convincano che la letteratura non esiste staccata dalla storia viva di tutta l’attività di un popolo (non parlo poi della filologia). D’altra parte, e forse ancor più, bisogna che nei circoli commerciali cessi il pregiudizio della «corrispondenza e della contabilità commerciale» quale unica richiesta tecnica veramente necessaria, di fronte a cui tutto l’altro è chiacchiera e “idealismo”».
Rinuncia alla “letteratura”? Emarginazione del letterato “puro” in una sorta di esilio, apparentemente silenzioso, da cui pur non si esclude il suo contributo decisivo alle sorti dell’ «avvenire anche pratico»? Ma nel successivo richiamo al nesso tra letteratura e vita nazionale e popolare c’è anche un “ritorno a De Sanctis” e un’idea dell’intellettuale letterato che a Gramsci non sarebbe dispiaciuto e non gli sarebbe dispiaciuto nemmeno il tentativo di intreccio, che qui Slataper individua, tra umanesimo e formazione culturale tecnica, a patto che l’uno non si riduca ad arido specialismo e l’altra a produzione di competenze traducibili solo in mansione lavorativa settoriale.
A Elody, entusiasta di Amburgo e del suo lavoro di lettore di italiano al Kolonial Institut, («Mille volte meglio insegnare, che scrivere articoli. È in un certo senso un’esperienza tutta nuova che faccio, questa dell’insegnare a scuola, maestro rispettato a scolari fissi, più vecchi di me…») Slataper scriveva nel 1913 una lettera in cui l’incrocio degli studi e delle discipline diverse è descritto con l’allegria del giovane professore entusiasta dell’esperimento, che vorrebbe «nutrire tutto l’uomo» e non solo una sua parte: “Mi son messo in testa di capire dalla prima all’ultima parola un listino di borsa, e un bilancio di società: senza ciò di Amburgo non si afferra niente. E studio: la mattina economia politica, il dopopranzo Ibsen. È uno sbalzo stranissimo. Stamattina per es. sono tornato a casa tutto pregno e gravido di “bancogiri” e “mercantilismi” e “porti franchi”; ho dormito un poco, e mi sono dovuto preparare per la conferenza su Leopardi. Da principio non andava. Dunque “Vaghe stelle dell’orsa…” (aggiungere all’articolo che nel 1833 Amburgo aveva le sue prime fattorie nell’Africa Occidentale!). “… io non credea”; poi, la mente nei pugni e fra i denti, ho rivisto le vaghe stelle; e stasera ho parlato, che mi stavo ad ascoltare e mi volevo battere le mani.[…] bisogna nutrire tutto l’uomo; se resiste è poeta, se no schiatta, ma almeno ha fatto qualcosa. “
Erano ideali, anche formativi, di una borghesia giovane e moderna, che si illudeva di poter svolgere ancora la sua funzione egemonica di classe generale in grado di portare ad esiti progressisti l’intera società. La guerra, terribile, che essa stessa avrebbe invece di lì a poco scatenato in Europa, e nella quale anche Slataper avrebbe trovato la sua morte, li avrebbe brutalmente smentiti, crudamente recisi. Anche questi.

di Luca Zorzenon