Anita Pittoni: la scrittrice

| | |

Un incontro allo scopo di redigere una tesi di laurea

di Vittorio Cozzoli

 

Sono sincero: non mi pare che quanto finora affermato, scritto e stampato, per fissare la memoria storica di Anita Pittoni risulti sufficiente o idoneo a rispondere a questa domanda che vale per ogni uomo, ma in modo ora particolare per Anita: «Sì, lo so, ma lei chi era?».

Domanda, questa, non presuntuosa, ma onesta, perché, sabianamente, la verità che va cercata è quella che ‘giace al fondo’, e che non dobbiamo cessare di cercare. Ogni  più adeguato modo di cercare la realtà piena di un uomo pone, come preliminare e fondante, la domanda: «Sì, lo so, ma lei chi era?». Questa inadeguatezza si è ripetuta riguardo i diversi tentativi di storicizzare la figura e l’opera di Anita Pittoni.

Fino ad oggi, infatti, non si è ricercato e correttamente affrontato il ‘da dove’ venisse la sua opera e ‘da cosa’ fosse mossa. Ci si è, piuttosto, fermati all’elenco e all’analisi dei risultati oggettivi da lei conseguiti: filati, carte, oggetti artistici, fossero di ascendenza mitteleuropea o d’avanguardia.

Se la prima parte della domanda – il «Sì, lo so» – riguarda l’aver ormai elencato la sua attività ‘artigianale ed ‘intellettuale’, la seconda parte della domanda, veramente inquietante, il «ma lei chi era?», attende nuove indagini più a fondo impostate tanto nell’intuizione quanto nel metodo.

Rispondere, infatti, con l’ormai consueta affermazione, che fa di Anita una ‘artigiana, una ‘imprenditrice culturale’, una ‘intellettuale’, una tanto piccola quanto preziosa ‘editrice’, è corretto; ma, alla fine, ciò nei suoi confronti risulta riduttivo, in quanto ridotti appaiono la prospettiva, il metodo, lo scopo, necessari per rispondere alla tremenda – difficile, ma ineludibile – domanda: «ma lei chi era?».

Senza cercare di rispondere, per quanto possibile, affidandosi solo a documenti esterni, quali i suoi prodotti artistici – sempre di alta qualità creativa (l’ho vista al lavoro nel preparare le pagine di un libretto dello ‘Zibaldone’) – sarebbe onesto, anche se per certi versi più rischioso, il servirsi di altre fonti e documentazioni. Che, specialmente per Anita, vanno dagli ‘incontri’ (con persone che hanno reso reale l’accadimento di quell’’incontro’) alle autotestimonianze epistolari. Quest’ultime non sono ancora state raccolte (quanto rimane di esse!) né studiate nella direzione del. « lei chi era?».

Da parte mia, quello che si è rivelato essere ’incontro’ con Anita (venuto improvvisamente, e neppure immaginato nei suoi possibili esiti) nel suo valore e nelle sue conseguenze, mi è stato confermato da lei stessa epistolarmente: il nostro è stato un raro, vero ‘incontro’.

Di più, è stato un ‘accadimento’, se vogliamo servirci di un termine in sé equivoco, forse iniziatico, ma certamente reale. Da questo ‘incontro’ è venuto, per quanto possibile e lecito riferire, il mio con Anita Pittoni.

 

*

Era la fine del 1964 stavo terminando gli studi universitari alla ‘Cattolica’ di Milano e dovevo scegliere l’argomento della tesi di laurea. Un amico, incontrato per strada,  mi dice: « Se ti occorre, c’è a Trieste una donna che ti può essere utile». Io, che non ero mai stato a Trieste e di Trieste sapevo quanto fino ad allora mi avevano raccontato i libri con una certa retorica (cioè, quasi niente), decisi per andare ad incontrare quella donna che, a detta dell’amico, mi sarebbe stata utile per affrontare una tesi dal titolo Contributi allo studio delle triestinità. Devo ammettere che un senso particolare, al quale sentivo di dover ubbidire, (strano che non avesse un fondamento, neppure letterario!), mi muoveva verso quella donna, per me del tutto sconosciuta.

Dopo aver viaggiato durante la notte, senza alcun preavviso mi presentai alla sua porta, verso le 9 del mattino, e suonai il campanello. Dopo un poco si presentò in vestaglia una donna che, disturbata e giustamente seccata, mi si rivolse con un: «Ma la pare l’ora di presentarsi?». Io, certo impreparato e ancor più incosciente di cosa significasse quel primo momento dell’incontro con ‘lei’, risposi «Mi scusi, sono uno studente e avrei bisogno di parlarle». Dopo avermi fissato per un momento, sorridendo aggiunse: «Torni fra mezz’ora». Rimasi con Anita fino al primo pomeriggio a definire il seguito degli incontri per la tesi, che desiderò fosse precisata da un’aggiunta, per cui il titolo divenne Contributi allo studio della triestinità – Giani Stuparich.

Allora non capii il valore che l’aggiunta aveva per lei, ma oggi mi è chiaro. Come oggi mi è chiaro che il mio essere venuto a Trieste ha significato fare esperienza di conoscenza della ‘laica’ Trieste e dare inizio ad un’altra, a suo modo iniziatica, quella del rapporto tra mondo interiore e scrittura. Laica, dunque, cominciai a capire l’identità di Trieste, non nel senso di anticlericale – benché qui sarebbe giusto citare le forze operanti, comprese le massoniche, a loro modo anticlericali – ma in quello concepito dalla volontà imperiale asburgica (da Carlo VI a Maria Teresa) di fare della città il porto dell’impero, dove ognuno fosse libero di professare la propria fede (cattolica, evangelica, ortodossa, ebraica, e anche di non professarne alcuna, vivendo nella propria libertà).

Anita credeva fortemente in questa laicità, tanto da sostenerla e difenderla con contributi di ‘scrittura’, quali, tra gli altri, le lettere che danno corpo a L’anima di Trieste.

Da tutto ciò viene il fatto che la lingua dei triestini, cioè il loro dialetto, non potesse essere altro che una ‘lingua laica’, usata da tutti; mediatore, come si sa, il porto. Che lasciava private le questioni non commerciali, a partire dalle religiose e spirituali. Di questo dialetto, nella sua distinzione dal veneziano e forse anche dall’’istro-veneto’, si è servita Anita letterariamente, in quanto ‘scrittrice’, sostenendolo anche editorialmente. è l’Anita ‘comediante’ e  ‘mula pianzota’. Ma non è ancora la ‘scrittrice’ che qui può iniziare ad emergere quando entri in azione non la sua anima, ma il suo spirito. è l’Anita che ha voluto l’amicizia tra me e Ugo Pierri, che dura fino ad oggi, mantenendo ciascuno nel rispetti  della nostra identità e nel proprio modo di ‘scrivere’.

Certo, la Trieste in cui visse Anita, così asburgicamente connotata e interpretata da un’intelligente borghesia imprenditoriale ‘triestina’ non era la sola da riconoscere. Sono stato guidato a riconoscerne più di una, ma particolarmente un’altra, la popolare, operaia, sulla cui importanza, forse, occorrerebbe culturalmente continuare gli studi. E in essa meglio che altrove di fondevano in un unico ‘dialetto’ quello della laica Trieste asburgica e quello popolare operaio.

 

Non è mia intenzione, qui, intervenire sul piano geopolitico e storico (utopistico o profetico col suo pensare a Trieste come la ‘Filadelfia d’Europa’), a proposito del ‘da quale parte stare’ da parte di Anita (molto già è stato detto, direttamente ed indirettamente), poiché altra ora è la mia urgenza. E questa riguarda – in modo da poter cercare una risposta al «Sì, lo so, ma lei chi era?» – il mio personale rapporto con lei dal punto di vista dello ‘scrivere’. Lei così avanti, io agli inizi.

Devo, su questo punto, confessare che già nei primi giorni del nostro incontro, cominciava a farsi presente, tra Anita e me una silenziosa e segreta lotta trovandomi, anche se ancora inconsciamente, tra il suo ‘tirarmi dalla sua parte’ e il mio ‘resistere’ in nome di un mio io da difendere come ‘mio’. Cioè, posto all’inizio di un cammino di esperienza e conoscenza del ‘chi sarei stato’: un  poeta e un commentatore anagogico di Dante.

Anita non  poteva sapere questo di me, ma intuiva in me e per me qualcosa di importante, ancora tutto da iniziare. In questo senso riconosco che è stata mia levatrice allo scrivere (coscienza e responsabilità), e non solo guida alla tesi di laurea sulla ‘triestinità’ e su Giani Stuparich (che non ho sentito far parte del mio cercare).

Anita mi ha insegnato due leggi che devono governare uno ‘scrittore’: la libertà della penna e la moralità dell’arte. Mi diceva: «Vedi, gli scrittori triestini avevano tutti un lavoro, che li rendeva indipendenti, liberi di usare la penna per scrivere liberamente la loro opera».

Me ne parlava nei giorni in cui ‘lei’ stava uscendo dalle “grandi angosce”; giorni in cui la sua interiore sofferenza metteva in luce qualcosa di ancor più a fondo di uno stato psicologico. Come a dire che non si trattava solo di anima, ma di spirito. Dante – venuto nella mia vita dopo Anita, e forse da lei preparato – mi avrebbe insegnato che delle due, l’anima e lo spirito, fansi un’alma sola (Pg.XXV,74).

Dicendo questo mi avvicino – certo rischiosamente – al territorio segreto di Anita, quello che ne faceva una ‘scrittrice’. Cioè’ quella ‘scrittrice’ che ancora non è stata riconosciuta, neppure dai più dei critici; neppure da quelli che si occupano di scrittori connotati come ‘triestini’. A questo proposito in una lettera mi scriveva: «Triestino sei più tu di altri nati a Trieste».

 

Ora è tempo di tornare alla domanda iniziale: «ma lei chi era?».

Chi l’ha conosciuta e frequentata può rispondere, anche meglio di me, su quegli aspetti della personalità (temperamento e carattere) che la rendevano una donna difficile, senza tuttavia intuire, dicendo questo, le difficoltà che andava affrontando nei rapporti, prima ancora che con i triestini, maggiorenti e non, con se stessa.

Certo, sarebbe facile scivolare, nella psicoanalitica Trieste, lungo la china dell’analisi e cercare una risposta al «ma lei chi era?».

Ci sono, in realtà altri aspetti da prendere in considerazione, e non tutti da porre sul versante ideologico-culturale o clinico. Difficili da documentare, ma reali e perciò ineludibili.

Il primo è certamente la sua ‘sensitività’, una particolare sensibilità che possiamo riconoscere (cosciente io dei rischi che comporta l’uso di una terminologia di queste genere) come ‘medianica/mediatrice’.

Si potrebbe qui affermare che ‘sentiva’ le persone, ne intuiva le grossolanità o la finezza, così da cogliere non solo la qualità delle persone, ma da misurarne l’intelligenza, riconoscendo tanto i ‘corti’ quanto gli inaffidabili. O i pochi, molto pochi, con quali poteva aprirsi con tutta sé.

I più (anche alcuni potenti in Trieste), coloro che desideravano entrare nella sua confidenza o, ancor più selettivamente, nel suo ‘salotto’ e partecipare ai suoi ristrettissimi incontri, divennero, in quanto esclusi, suoi nemici.

Certo, le maldicenze su Anita l’accompagnavano dalla giovinezza, anche da parte di molte ‘babe’ ritenuto il suo un vivere (per quei tempi) troppo libero. Non sta a me giudicare. Tuttavia, il dato sulla forte sensitività (mi metteva in avviso col suo «mi son striga de bosco»), è assai importante in quanto non pertiene all’anima (gli stati d’animo, i sentimenti, le passioni, (certamente ben presenti in ‘lei’), ma allo spirito; cioè, all’intelligenza di una dimensione della realtà posta ‘oltre’ la normale quotidianità. Non è, perciò, da considerarsi, nei suoi più alti e ultimi esiti, una scrittrice di fantasie, una narratrice di storie vissute di ‘qua’, ma di incontri vissuti ‘di là’. Le pagine di Passeggiata armata ne sono chiara testimonianza (si pensi al piano in cui avviene l’’incontro’ col ‘suo’ Nietzsche). Superano anche quelle esperienze esoterico/divinatorie, che le avevano aperto rapporti di difficile definizione quale quello, per fare un esempio, con il rapporto con quella ‘strana’ pittrice, che fu la Lupieri.

Cosa significa, sia pure detto in questa forma di sintesi e di ancora insufficiente precisazione, quanto appena affermato? Che Anita certamente è stata una ‘scrittrice’, e in questo senso ‘triestina’; ma che lo è stata indipendentemente dall’essere nata e vissuta a Trieste ed aver avuto e più e meno come concittadini, amici o variamente frequentati, altri grandi scrittori triestini.

Come a dire che Anita Pittoni, per quanto scritto in triestino è ‘poetessa’, ma per quanto riguarda la parte più alta raggiunta dal suo scrivere è ‘scrittrice’ dai tratti universali, come lo sono i veri scrittori la cui opera è destinata a durare oltre la loro vita. Non è un caso che sia stata così vicina alla pubblicazione con Adelphi, stando a quanto lei stessa mi aveva confessato.

Dunque, più che in Férmite con mi o con El passetto, è nei racconti di Passeggiata armata, che, a mio modo di considerare la sua opera, Anita è la ‘scrittrice’ che ancora dobbiamo conoscere studiare, apprezzare e per certe cose amare.

Nelle pagine di Passeggiata armata Anita affronta il proprio spirito; ha saputo andare oltre il piano della sua stessa anima.

Certo, se non fosse stata ‘fatta così’ e non avesse avuto esperienza di episodi anche ‘medianici’, non avrebbe ‘potuto farsi ‘mediatrice’ di una realtà ulteriore; che è una rivelazione della realtà ultima, come vero-di-sé, con cui lo scrittore è chiamato (se a questo è chiamato) a confrontarsi.

 

Da qui, iniziato il discorso su «ma lei chi era?» e quella sul ‘da dove venisse’ quanto scriveva, è utile proseguire questo importante, anche se solo introduttivo, discorso su Anita Pittoni ‘scrittrice. Non  è certamente facile – forse neppure lecito – indagare, per quanto possibile, il ‘cosa’ scrivesse, di cosa si ponesse al servizio con la propria scrittura.

Se si leggesse ‘secondo Anita’ la sua pagina introduttiva ai racconti di Passeggiata armata – vera chiave di lettura entrare nel significato del suo ‘scritto’ – comprenderemmo l’indicazione data all’intelligenza della sua ‘scrittura’. Che offre ai pochi in grado di ’passare oltre’ con lei e insieme a lei, forse, il come avvenga l’indicibile esperienza: «Non so come avvenga» . E ancora: «Ogni volta, prima di oltrepassare quel limite fluttuante e preciso che chiude in un anello la mia città, devo liberarmi da ogni consapevolezza». E ancora: «è avvenuto. Sono passata oltre, incolume».

Certo, si tratta di un’indicazione fenomenologica del reale vissuto, ‘medianico/mediatore’, che è solo suo e che nessuno deve indagare oltre l’esito artistico; qui veramente creativo.

Forse mai come qui l’anima e lo spirito di Anita Pittoni si sono fusi e ne hanno fatto la inimitabile scrittrice che è. Non ovunque, ma qui senza dubbio.

Dobbiamo, noi lettori, lasciare che l’incontro col suo Nietzsche le consenta di trovare l’esergo per la raccolta dei suoi racconti: «La involontarietà dell’immagine, del simbolo è il fatto più strano; non si ha più alcun concetto; ciò che è immagine, o simbolo, tutto si offre come la espressione più vicina, più giusta, più semplice». E con queste parole si affida all’incontro, simbolico e reale nello stesso tempo, con la propria città: è il simbolo che ri-unisce le due parti di Anita: quella che la lega alla sua citta esteriore, in cui fisicamente, psicologicamente abita (Trieste), alla città interiore, il proprio spirito, in cui sente di vivere il più vero di sé e della propria storia.

Così, infatti, leggiamo l’incipit de La bifora: « è da un po’ che cammino in questo intrico di strade disabitate strette tra case silenziose in un continuo succedersi di prospettive meravigliate di muoversi con tanta grazia nel breve spazio che le contiene. Ma ecco a una svolta improvvisa annunciarsi a pochi passi la piazza. è un cerchio ampio e perfetto inondato da un alto sole». E poco dopo rivelarsi il ‘cosa vuole’: «vedere il più bel panorama del mondo dalla bifora del Gran Palazzo». Il ‘vedere’, il vedere di Anita! è in nome di questo vedere di questo servirsene che Anita Pittoni è la scrittrice che è. Tutta ancora da indagare, da riconoscere nel suo valore, che non è solo letterario.

Con questa mia testimonianza ho inteso offrire un iniziale, o iniziante, contributo a meglio intendere la via che ci conduce, finalmente, a riconoscere la ‘scrittrice’, e non più solo l’artigiana artistica e la promotrice culturale. E forse non è accaduto indebitamente ritrovare il suo bronzo nel giardino a fianco dei più illustri ’scrittori’ triestini.

 

Anita Pittoni