CHE SENSO HA…

slataperCredo giusto interrogarsi, a cent’anni di distanza, su cosa rimanga delle centinaia di migliaia di persone – per riferirsi solo del fronte italiano – travolte dalla “inutile strage” della Grande guerra.

Il rinnovato interesse per la storiografia sociale sta riportando alla luce, e valorizzando, lo sterminato patrimonio di testimonianze di quanti hanno vissuto la guerra in prima linea, umili pedine di un gioco che trascende le capacità di comprensione di ogni essere umano.

Il panorama che ne esce sta facendo giustizia dei molti stereotipi che avvolgevano di una nebbia trionfalistica e assolutoria una guerra condotta da una casta militare mediocre sul piano culturale, professionalmente impreparata nonché, salvo rare eccezioni, più misera umanamente degli uomini che era chiamata a comandare.

Ma, se questo è il quadro che la storiografia più impegnata sta portando alla luce con un significativo capovolgimento di prospettive, qual è in particolare il ricordo di quella classe intellettuale, esigua schiera in rapporto alla consistenza numerica della nazione, che, dopo averne sostenuta la necessità, prese parte alla Grande guerra?

Gli “interventisti” superstiti si trovarono a dover scegliere tra un dignitoso silenzio o accodarsi ai sostenitori del nascente regime: pochi furono coloro che mantennero con determinazione una posizione critica nei confronti del fascismo.

Quanti ebbero, invece, la sventura di soccombere vennero collocati, dalla narrazione che se ne è fatta, in una sorta di empireo dove risiederebbero le memorie più sacre della Patria oppure, all’estremo opposto, sono stati completamente dimenticati in qualche sperduto cimitero di guerra: sorte indegna della loro morte in entrambe i casi, perché l’esaltazione acritica non è meno condannabile del più totale oblio.

La retorica del patriottismo del dopoguerra, appropriatasi di un patrimonio di valori che s’era andato formando durante la vita di trincea, ha ricondotto alla categoria generica e unificante dell’ “eroe” persone caratterizzate da una ben preciso profilo intellettuale che ne costituisce l’eredità più vera e preziosa.

Non dunque eroi, definizione senza senso, utilizzata quando non si vuole approfondire il discorso, ma esseri umani, dotati di una propria coerenza e dignità, le cui idee e i cui comportamenti ci sembrano oggi ben più significativi delle gesta descritte con toni enfatici dalle motivazioni delle onorificenze militari.

A cento anni di distanza è necessario, dunque, un riesame complessivo degli eventi storici e dei comportamenti individuali che li liberi da ogni scoria celebrativa, riportandoli alla realtà effettuale, rivelandoceli per quello che furono realmente e non per la mitizzazione che di essi s’è andata stratificando.

È questo il caso di Scipio Slataper che, una volta incasellato nella categoria degli “eroi”, tende a essere scordato per quel che ha detto e scritto e ricordato, quando fa comodo, secondo immagini poco aderenti alla realtà se non in palese contrasto con essa.

Di lui, ormai, si ricorda quasi solamente Il mio Carso; pochi cultori ne conoscono l’Ibsen; ancora meno Le lettere o Gli appunti e note di diario; quasi nessuno gli Scritti politici.

La stessa critica letteraria si è esercitata, e si esercita tuttora, con encomiabile costanza, nell’analisi delle sue opere letterarie, giungendo a scandagliare fin le primissime e spesso insignificanti composizioni giovanili, ma lì si ferma.

Per qualche generazione e forse ancor oggi, Il mio Carso ha rappresentato e rappresenta una sorta di rifugio in cui riconoscersi, ma il pensiero politico di Slataper, che costituisce, per certi versi, l’aspetto suo più emblematico, viene trascurato o trattato con gli strumenti della critica letteraria anziché con quelli della storiografia.

Come alcuni anni fa giustamente annotava Mario Isnenghi, non senza una qualche provocazione, il pensiero politico di Slataper ci giunge, poi, attraverso il filtro “amorevole” di Stuparich. Fu infatti Giani Stuparich a curare la raccolta degli Scritti politici, edita da Stock nel 1925, e la successiva edizione mondadoriana degli anni ’50. E il filtro di Stuparich, percepibile già nella selezione degli scritti pubblicati, diviene ancor più evidente nell’interpretazione del pensiero politico slataperiano posta a conclusione della biografia Scipio Slataper, apparsa nel 1922.

In essa, il pensiero di Slataper viene ricostruito, fornendo una quantità di riferimenti che ancor oggi aiutano alla comprensione del clima esistente attorno a La Voce. Ma è interpretazione di chi, sopravvissuto alla guerra e partecipe della parabola slataperiana, si trova a dover fare i conti con una realtà ben diversa da quella pensata e sognata quand’era partito per il fronte con la camicia rossa garibaldina, sotto la divisa d’ordinanza!

E, nel fare i conti, non solo difende la memoria dell’amico dai detrattori, da chi era giunto a insinuare che la morte di Slataper fosse una volontaria espiazione delle posizioni assunte – prima della guerra – nei confronti dell’irredentismo liberal-nazionale triestino, ma rivendica, nello stesso tempo, quella che, con un po’di retorica, si potrebbe definire oggi la nobiltà della lotta condotta dal movimento vociano e, in particolare, dal gruppo di giovani giuliani riunito attorno a Slataper.

Dopo la pubblicazione della biografia stupariciana, salvo occasionali interventi che non affrontano organicamente il pensiero e la figura di Slataper ma ne colgono solo gli aspetti più esteriori, cala l’interesse, e la cosa è tanto più significativa poiché quelli erano tempi in cui imperversava l’esaltazione retorica nazionalista che, in fondo, avrebbe potuto facilitare un uso strumentale della sua immagine. Ma Slataper – nonostante tutto – non si prestava troppo bene a questo tipo di travisamenti: aveva detto troppe cose che non facevano comodo ai nazionalisti, a coloro che Stuparich accusava di aver fatto la guerra dai tavoli del Caffè Aragno di Roma e che, con l’avvento del fascismo, erano diventati i nuovi cantori delle glorie patrie.

Si devono attendere così più di quarant’anni per disporre di un nuovo contributo alla comprensione del pensiero politico di Slataper, rappresentato dalla biografia di Anco Marzio Mutterle, che costituisce una sorta di controcanto alla biografia stupariciana.

L’approccio di Mutterle è mediato e libero dai condizionamenti dovuti al contesto politico: non si tratta più di difendere la memoria di un amico né di porre nella giusta luce, di fronte all’arroganza di regime, la breve stagione vociana. Si tratta di analizzare la personalità di Slataper e, conseguentemente, anche il suo pensiero politico che, accanto alle espressioni più propriamente letterarie, ne costituisce una componente essenziale.

Tuttavia, anche Mutterle conduce l’analisi con gli strumenti della critica letteraria e non con quelli della storiografia; manca un riferimento puntuale al contesto geopolitico europeo; non è chiarito il passaggio dalle posizioni vociane, compendiate nella famosa frase “Dunque io non sono irredentista…”, alle posizioni decisamente interventiste.

E, pur con sfumature diverse, lo stesso può dirsi dei rari, successivi contributi dovuti a storici sensibili e attenti ai temi della Grande guerra. Mi riferisco, ad esempio, alle considerazioni di Mario Isnenghi, apparse negli atti del Seminario di studio dedicato al Mio Carso, tenutosi a Udine nel febbraio 2012. Sono riflessioni condotte con la maestria del grande storico, eppure non riescono a spiegare quella che, apparentemente, potrebbe sembrare una svolta nel pensiero slataperiano, indotta quasi dalla volontà di accordarsi al flusso del movimento interventista che attraversava l’intellettualità italiana.

In realtà, esistono obiettive difficoltà a trovare un collegamento tra gli scritti politici di Slataper del periodo vociano e gli “scritti interventisti” del periodo compreso tra la primavera del 1914 e l’estate del 1915, ma recenti studi sono riusciti a rintracciare un filo rosso e un’insospettata continuità che salda i due periodi in un unico percorso, la qual cosa fa ritenere che solamente un approfondimento esteso a tutte le fonti disponibili, agli appunti, alle lettere, agli articoli di giornale, ai brevi saggi d’occasione, al materiale conservato presso l’Archivio di Stato di Trieste, potrà consentire di far completa luce anche su questo aspetto della produzione slataperiana.

La tavola rotonda organizzata a Trieste, il 4 dicembre prossimo, ha dunque il senso di riportare l’attenzione sul pensiero politico di Slataper, inaugurando una nuova stagione di studi che contribuisca a fissarne i contorni in tutte le molteplici e talvolta contrastanti sfaccettature, con una ricostruzione del tormentato percorso esente da incrostazioni ideologiche e da interpretazioni non direttamente riconducibili alle fonti.

di Aurelio Slataper