Cime irredente

| | |

In una nuova edizione ampliata il libro di Livio Sirovich che non piacque a Manlio Cecovini

di Luca G. Manenti

 

Quello di Livio Sirovich è un libro estremamente godibile: un po’ saggio, un po’ memoriale, un po’ pamphlet, un po’ romanzo. Riedizione di un volume uscito nel 1996, il testo, che vanta l’aggiunta di un inedito capitolo finale, scorre benissimo grazie a una prosa sapiente e controllata, pur richiedendo, insieme, un alto grado d’attenzione, sia perché l’autore ci accompagna nei meandri delle sue minuziose ricerche in archivi e biblioteche, nei discorsi mai banali con i compagni di cordata, addentrandosi con curiosità nelle pieghe dei documenti e delle parole, sia perché vi si discute, con levità ma mai con superficialità, di cose molto serie, ossia della storia tormentata di Trieste.

Punto di partenza del racconto: una diatriba legata alla partecipazione di un gruppo alpinistico a un comitato dai chiari intenti politici, che fornisce il destro all’autore per un tuffo nel passato della città adriatica, e dunque per un’analisi della sua identità: sviscerata, sezionata, disintegrata nei suoi meccanismi di funzionamento. Perché l’identità è un costrutto culturale sempre suscettibile di contrattazione e rinegoziazioni, non un dato di natura. Questa, si sa, è notoriamente materia per lo storico di professione, epiteto che l’autore rifiuta ma che non si può in parte non attribuirgli, perché egli ha redatto un testo che è anche un ricerca storica, tuttavia caricandolo di un tale pathos, mettendovi un tale impegno civile, in molti punti anche un tal senso d’indignazione, da fare di Cime irredente qualcosa di diverso da un saggio vero e proprio.

Lo storico di professione, infatti, non può permettersi di fare ciò che l’autore ha fatto, ossia una cavalcata nelle vicende otto-novecentesche di Trieste senza l’onere di contestualizzare ogni volta la situazione geopolitica del continente, di citare le fonti più aggiornate, di sottoporre a prove e controprove le risultanze ottenute. Se nessuno storico è oggettivo, al massimo può tentare d’essere equilibrato, impresa comunque ardua, in cui solo pochi riescono, Sirovich ha preferito essere, ed è stato, passionale, sicuro della posizione da assumere, certo sugli amici come sui nemici, trascinato da una verve polemica che è il sale di questo lavoro. Troppo sale rende la pietanza indigesta, è vero, ma egli ha cucinato un piatto letterario gustoso; perlomeno chi scrive, rimanendo nella metafora, se ne è cibato con appetito. Insomma, egli si è preso quelle libertà che lo storico non si può prendere, ma l’ha fatto con consapevolezza, dichiarandolo, mettendosi così al riparo dall’accusa di non essersi comportato secondo le convenzioni accademiche.

Sul suo banco degli imputati sono finiti, in primis, il fascismo e il razzismo nelle varianti antisemita e antislava. È indubbio: Trieste ha avuto dei cittadini, non tutti e non sempre, ma in determinati momenti determinati cittadini, che si sono macchiati di gravi colpe: arroganza culturale, boria nazionalista, violenza verbale e fattiva, inneggiando a una purezza etnica e culturale inesistente, qui smascherata in modo implacabile. L’autore scruta con caparbietà ossessiva nei panni sporchi di Trieste; fa i nomi, rivela delle tradizioni, stabilisce dei legami, individua delle genealogie familiari, mette a nudo le malefatte, si concentra sul lato oscuro di una identità «triplice», diceva con entusiasmo Slataper, caratterizzata da «anfibismo culturale», diceva con disprezzo Timeus.

Sirovich, poi, ha un’opinione precisa sulla massoneria, che avrebbe svolto nella città di San Giusto un ruolo deleterio. Senza negare il fatto che nell’Ottocento la libera muratoria abbia abbracciato, più che la causa della fratellanza universale di cui pure si diceva paladina, quella di una patria intesa in senso esclusivista, e che nel Novecento alcune sue branche siano rimaste invischiate in scandali torbidi, offrendo l’immagine di cricche affaristiche, va pur detto che le logge svolsero a Trieste e in Europa nel Settecento, per buona parte del secolo successivo e, sotto certi aspetti, di quello successivo ancora, un ruolo amalgamante; divennero cioè il punto d’incontro di una borghesia in ascesa sociale, multilingue, multireligiosa, plurietnica.

Greci, italiani, tedeschi, turchi, armeni, sloveni, francesi e inglesi nei templi di Hiram si addestravano alla democrazia, poiché la gerarchia massonica poteva essere scalata grazie a meriti personali e non di nascita, in virtù delle propria capacità e non del proprio cognome; uno spazio, insomma, in cui tutti gli uomini (e solo gli uomini, perché le donne non vi erano ammesse), compresi gli ebrei, potevano considerarsi alla pari, in una parola, dalla forte pregnanza in ambito libero muratorio, fratelli.

La massoneria e la patria hanno a lungo camminato insieme, e i peccati della seconda si sono riverberati sulla prima, che sempre l’ha difesa, ma entrambe hanno avuto anche degli incontestabili meriti, quei meriti che gli israeliti di Trieste, e non solo loro, hanno riconosciuto all’una e all’altra. Fra XIX e XX secolo, quando il borgomastro di Vienna era Karl Lueger, feroce antisemita stimato da Hitler, nel regno d’Italia gli ebrei erano in parlamento, facevano i deputati, i senatori, i ministri, mentre Gran maestro, vale a dire massima carica del Grande Oriente d’Italia, era Ernesto Nathan, mazziniano d’origine ebraica, sindaco di Roma dal 1907 al 1913.

Nel 1925 il fascismo indusse la massoneria all’autoscioglimento, nonostante l’affiliazione di non pochi dei suoi membri, e nel 1938 discriminò gli ebrei, che non s’aspettavano d’essere così ricompensati del forte contributo, in termini intellettuali e d’azione concreta, che essi avevano dato sia al Risorgimento sia all’Italia liberale, guardata con ammirazione dagli irredentisti triestini, parecchi dei quali erano massoni ed ebrei. Si pensi, su tutti, a Felice Venezian, uomo potente nella Trieste asburgica nello stesso momento in cui Lueger era uomo potente nella capitale dell’impero.

Quanto appena detto non confuta, ma vorrebbe arricchire di sfumature il quadro dipinto dall’autore, che ha indagato il risvolto della medaglia del concetto di patria, la sua versione degenerata, che tanti, troppi danni ha causato a Trieste e altrove. Un contributo nocivo all’umanità riassunto in un particolare approccio, in un preciso atteggiamento sociale che pare attraversare, quando più quando meno, l’intera parabola della Trieste contemporanea: l’antislavismo, o meglio sarebbe dire l’antislovenismo, per usare un neologismo cacofonico ma puntuale: un’opposizione preconcetta a un vicino di casa avvertito come alieno, totalmente altro da sé, in nome di un’italianità, o di un’italianissimità, assolutamente male intesa, lontana anni luce dal concetto che ne ebbe, per fare un nome, Mazzini, che guardò sempre con rispetto agli slavi meridionali dell’impero danubiano, con cui gli italiani avrebbero dovuto cercare una proficua intesa e una duratura collaborazione.

Cime irredente è, insomma, uno spassoso atto d’accusa, perché con piglio umoristico, che gioca bene sul crinale che divide la canzonatura scapata dall’esplicito attacco, l’autore punta il dito contro l’immondizia della storia. Sirovich, certo, corre qua e là il rischio, che sempre si corre in tali frangenti, d’irrigidirsi in una posa moralistica, indebolendo la propria forza di persuasione, sebbene egli sappia anche complicare il suo tessuto narrativo, che è sì nella sostanza bicolore, dove il giusto e lo sbagliato sono separati con nettezza, ma è pure pieno di meditazioni sul da farsi, messe in discussione della propria strategia di comportamento, autocritiche.

Non è una coincidenza che nella prima pagina del volume compaia in esergo una frase di Kafka che recita: «un libro deve essere una picozza per rompere il ghiaccio che è dentro di noi». Arrivati alla fine del volume, si capisce perché questo motto lo introduce. L’autore sembra infatti aver frantumato in mille pezzi il ghiaccio che era dentro di lui, che abbia usato la ricerca per mettere alla prova le proprie idee, affrontando un argomento spinoso con una vena umoristica capace di far fare un salto di qualità al testo, di rendere palatabile un tema altamente drammatico. Si pensi alla figura fantasmatica del proto editoriale, di volta in volta supposto colpevole di errori che generano una finta commedia degli equivoci. Chi leggerà, ne riderà.

Cime irredente è, inoltre, una dichiarazione d’amore verso la montagna, intesa come luogo dai contenuti quasi spirituali, che dovrebbe trascendere le cure umane e che, invece, è stato storicamente al centro degli antagonismi nazionali, che hanno inquinato l’alpinismo, trasformando la sfida dell’uomo con sé stesso nella sfida di uomini con altri uomini. Nella mentalità fascista l’alpinismo doveva contribuire, al pari degli altri sport, alla rigenerazione morale e fisica degli italiani. Derivata dalla cultura futurista e superomistica e dall’arditismo, l’alpinismo si legò allora alla volontà nazionalistica di confermare l’italianità delle Alpi. Sull’argomento molto è stato scritto, e lo stesso Sirovich vi si è in altri saggi cimentato, da un pezzo su Napolene Cozzi in una miscellanea di qualche tempo fa, a un contributo nel volume L’invenzione di un cosmo borghese: valori sociali e simboli culturali dell’alpinismo nei secoli XIX e XX, titolo bellissimo e azzeccato, già contenente una tesi: a scalare le vette montuose era quella classe che stava scalando le vette sociali, la borghesia appunto, alla quale appartengono molti protagonisti di Cime irredente, per non dire tutti. Fra un racconto e l’altro di colloqui coll’avvocato e di problemi giudiziari, l’autore sa regalare intermezzi poetici, come il seguente: «La neve si è fatta farinosa, mettiamo gli sci. Il bello di questo tipo di alpinismo è soprattutto la salita: passo ritmato, spatole che fendono la neve. Un modo dolce e naturale di salire la montagna, come ai vecchi tempi, nel silenzio». Suggestivo.

Ma Cime irredente è anche, di per sé, una fonte storica, che proietta il lettore nella Trieste del Melone. E difatti, un personaggio onnipresente nel volume, che aleggia anche quando non è direttamente nominato, è Manlio Cecovini. E non poteva essere altrimenti, essendo egli stato un massone alto graduato, politico di destra, erede della tradizione del partito liberal-nazionale. Insomma, un uomo in grado di condensare su di sé quasi tutti quelli che agli occhi dell’autore sono stati i vizi di Trieste. Cecovini ha criticato con signorilità, ma con fermezza, la prima edizione di Cime irredente nel Dizionarietto di filosofia quotidiana, in cui afferma: «il Sirovich scava con libidine dissacratoria nelle vicende anche privatissime dei migliori triestini del recente passato, intendendo dimostrare che nessuno di quanti sono passati alla storia dell’irredentismo aveva le carte in regola per dichiararsi “italianissimo”, essendo in realtà mezzo slavo, ebreo o mezzo ebreo, massone o altro ancora […] Io sono un abbastanza tipico triestino, cioè un sanguemisto: ma mi dichiaro e voglio essere riconosciuto per tale, perché sin dall’infanzia sono stato educato a considerarmi italiano, pure rispettando senza riserve chi si sente o si dichiara qualcosa di diverso. Rispetto anche Sirovich. Ciò che in lui respingo è il suo ingiustificato livore per chi la pensa diversamente da lui».

Chi scrive condivide il ragionamento di Cecovini fin dove parla di un sentimento di attaccamento a una comunità linguistica e culturale che rispetti i diritti di tutte le altre comunità linguistiche e culturali, non l’idea che Sirovich abbia agito con livore verso chi non la pensa come lui, perché l’oggetto del suo j’accuse non sono stati coloro che potrebbero rientrare nella definizione offerta dall’ex sindaco, corrispondente in pieno al prototipo del mazziniano perfetto, ma quanti hanno dichiarato la propria presunta superiorità su altri esseri umani, con buona pace dei principi della fratellanza e della solidarietà. In definitiva, Cime irredente è un libro divertente, stuzzicante e nel contempo di vera denuncia, che ha scoperchiato una pentola dove, forse, bolle ancora qualcosa.

 

 

 

Livio Isaak Sirovich

Cime irredente.

Un tempestoso caso

storico-alpinistico

Cierre, Sommacampagna 2019

  1. 432, euro 18.00