Luciano Ceschia, Il gatto rosso

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Quasi un’autobiografia del giornalista

di Pierluigi Sabatti

 

È difficile per me recensire questo libro perché mi sento molto coinvolto. In queste pagine scorre anche parte della mia vita, la parte professionale, una parte molto importante, come lo è stata, e ancora lo è per l’Autore, perché i giornalisti sono un po’ come i preti “unum sacerdos sempre sacerdos”, anche quando sono in pensione.

Quindi farò uno sforzo per distaccarmi e comincio con un’affermazione che Luciano Cerchia fa in uno degli ultimi capitoli del libro Il gatto rosso, che, va detto subito, non è una semplice autobiografia, ma il racconto di una vita spesa per l’informazione e il ritratto di una città e di un Paese visti da questa angolazione, quella del giornalista.

Cerchia afferma, in sostanza, che, per prima cosa, il giornalista è un testimone e quindi la corretta professionalità deve far prevalere la capacità di raccontare quello che accade, dalle cronache spicciole quotidiane ai grandi eventi. Le opinioni debbono venire dopo.

Oggi ci troviamo davanti ad una massa di opinioni che ci vengono buttate addosso attraverso i social media, dove ognuno può dire la sua, senza che vi sia alcun filtro. Ricordo in proposito uno degli ultimi moniti di Umberto Eco, il quale, poco prima di morire, avvertiva che «i social media danno diritto di parola a legioni di imbecilli che prima parlavano solo al bar dopo un bicchiere di vino, senza danneggiare la collettività. Venivano subito messi a tacere, mentre ora hanno lo stesso diritto di parola di un Premio Nobel».

E i danni si vedono. Non per fare una laudatio temporis acti (scusate l’abuso del latinorum), però fino a che esistevano soltanto i media tradizionali, radio, televisione, giornali vigeva un filtro attraverso il quale le notizie venivano valutate. Questo filtro era il giornalista con la sua esperienza, con la sua cultura, con la sua professionalità, con la sua sensibilità che poteva quindi valutare la notizia e sapere come darla al lettore, all’ascoltatore o al telespettatore. Oggi questo filtro viene saltato a piè pari e basta accendere lo schermo del computer o del tablet o dello smartphone, collegarsi con un social media e si può leggere di tutto. Per capirci con un esempio, guardate i danni che una colossale balla sui vaccini (che provocassero l’autismo) ha fatto: molti genitori rifiutano di vaccinare i figli e si corre il rischio che malattie ormai debellate come la poliomielite (incubo dei miei anni d’infanzia) possano ritornare. Non ci credete? Andate in Iraq e vedete come l’impossibilità, a causa della guerra, di continuare le campagne di vaccinazione contro questa terribile malattia sta provocando la sua recrudescenza.

Ma torniamo al libro di Ceschia che, come accennato, è un’affascinante narrazione ricca di spunti.

Il primo sono i confini. Confini che Luciano Cerchia ha conosciuto fin da bambino, quando ha dovuto sfollare in Istria perché il padre era stato destinato alla Dicat, la difesa anti-aerea, ed è venuto in contatto con il mondo slavo. Il primo sloveno che conosce è peraltro un occupatore dell’esercito jugoslavo, Ivo, che poi sposerà la sorella. E il sottotitolo si riferisce a un altro momento di quegli anni quando con la mamma va sul Carso in cerca di cibo e vede le case bruciate dai fascisti. Da bambino sveglio e curioso fa domande e la madre risponde appunto: “Tasi, picio, te prego”. Confini che ha conosciuto nella sua attività politica come assessore della giunta Spaccini quando promuove l’intitolazione a Basovizza di tre strade ai poeti sloveni Srečko Kosovel, Dragotin Kette e Igo Gruden. E poi come direttore de Il Piccolo e successivamente dell’Alto Adige. Confini anche mentali e culturali con i quali confrontarsi quando si fa informazione, in zone segnate dalla Storia. Confini che si toccano quando si va a vivere in una realtà come quella di Santa Croce o Križ dove abita da trentacinque anni, prima “accolto con cortese distacco – scrive – poi, con gli anni, accettato come compaesano”.

Il secondo spunto è l’attività giornalistica, di cui ho già trattato sopra, e in particolare quella come direttore. Io l’ho provato di persona e posso testimoniare con assoluta franchezza che Luciano Ceschia ha cambiato profondamente Il Piccolo, rinnovando fortemente la redazione sia con nuovi elementi sia con cambiamenti all’interno. Va aggiunto che una prima svolta, sia pure timida, al quotidiano l’aveva impressa Ferruccio Borio, direttore nominato da Giovanni Agnelli quando la Fiat comprò il giornale dal proprietario e direttore Chino Alessi per fare un favore al governo dell’epoca, guidato da Giulio Andreotti. La colpa di Alessi, l’ultimo direttore liberal-nazionale del quotidiano, era stata quella di aver contrastato con veemenza il trattato di Osimo e di aver favorito, tramite le Segnalazioni, la raccolta delle sessantamila firme contro l’accordo italo-jugoslavo e la conseguente nascita della Lista per Trieste, che provocò un vero e proprio terremoto politico in città. Non fu estranea alla vendita anche la situazione economica del Paese e del giornale: Alessi si era esposto fortemente con l’acquisto, in dollari, di una nuova rotativa mentre la lira valeva sempre meno a causa dell’iper inflazione. E nessuno gli diede una mano, anche tra gli imprenditori locali che pure gli erano vicini politicamente.

Ceschia fece del Piccolo un giornale più giovane e più aperto. Tra le iniziative ricordo su tutte la pagina del NordEst dove furono ospitate le cronache di quanto accadeva nei Paesi vicini, Jugoslavia e, in parte, anche l’Austria.

Il terzo è l’attività sindacale: dieci anni da segretario nazionale della Federazione della Stampa. Cinque contratti nazionali nei quali assicurare alla categoria una maggiore autonomia nel lavoro, tutelarla dai condizionamenti sia degli editori, sia dei direttori. Ricordo in proposito la questione di fiducia che la redazione deve esprimere, a par contratto, quando arriva un nuovo direttore voluta da Ceschia e che gli valse una staffilata di Montanelli: “Chi di contratto ferisce di contratto perisce” quando la sua nomina al Piccolo venne osteggiata dalla redazione, fino ad arrivare a un voto di parità tra favorevoli e contrari che lo indusse a entrare in quel giornale da cui era uscito, dopo un periodo di abusivato, promettendo che sarebbe ritornato da direttore.

Il quarto è la fama di rompiscatole, sia alla Rai dove pure fu assunto da Bernabei, sia all’Eri dove arriva dopo l’esperienza di direzione dei due giornali di frontiera e una devastante esperienza politica come candidato indipendente alle Europee.

E quinto elemento, la politica, come assessore della giunta Spaccini e la candidatura cui ho accennato. Un’attività che è riuscito a tenere separata da quella di giornalista. Una dote non molto apprezzata dai politici. Infatti Andreotti, quando Ceschia si trovò in difficoltà al Piccolo perché democristiano, affermò: “Per la verità non ce ne eravamo mai accorti, ma ciononostante ritengo doveroso esprimergli solidarietà”.

Ma a stemperare la grevità dei temi trattati, ci sono tanti aneddoti che costellano il libro, a cominciare da quello che dà il titolo al volume: Il gatto rosso, così definito dal caporedattore dell’epoca Ugo Sartori che disse all’usciere di portare una carta al “gatto rosso”, senza fare alcun nome. L’usciere non fece una piega e la portò subito a quel giovanotto “abusivo” (si chiamavano così allora i collaboratori in attesa di contratto) dotato di una chioma fiammeggiante che girava frenetico per la redazione. Ma la vulgata vuole che fosse denominato così anche per le sue simpatie politiche di sinistra, democristiana, ma di sinistra. Aneddoti anche divertenti che fanno da intermezzo leggero al racconto di una vita lunga in cui l’Autore confessa di “essersi divertito”, seguendo la massima di Chaplin: “Un giorno senza una risata è un giorno sprecato”.

 

Luciano Ceschia

Il gatto rosso.

“Tasi, picio, te prego”

Mgs Press edizioni, Trieste 2016

126 pagine, 12,50.