Un bambino sulla linea Morgan

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Disgrazie e dolori e separazioni, la guerra questo ha fatto, dappertutto, ma di più dove c’è stata anche la disgrazia di confini tracciati a tavolino

di Silvia Zetto Cassano

 

 

I francesi che hanno il senso della grandeur anche per la loro lingua, dicono confinement in luogo di lock down. Confinamento mi pare appropriato per questi giorni in cui ci tocca stare dentro a confini casalinghi, comunali, nazionali. Non si va più in zona B, hanno pensato molti di noi, i più datati, per così dire, quando hanno bloccato l’accesso alla Slovenia. Non posso più farmi un giro sul sentiero numero 40, Sgonico è oltre il confine del comune con l’ultima ordinanza, ho pensato da quando mi son trovata ancora una volta alle prese con una zona. Un colore al posto di una lettera. Confini, sempre confini.

Il confine, da queste parti, per alcuni è la percezione di una ferita antica.Se lo spiego ai foresti non capiscono. Non hanno abbastanza immaginazione.  Zona A e della zona B, ah sì? dicono, e se li porto su in carso ‘”è scritto in sloveno!” dicono. Si distraggono subito se continuo. Gli americani, gli inglesi, i neozelandesi che arrivarono a Trieste, i drusi, i titini, i quaranta giorni, le foibe. Ah sì, le foibe, dicono, su quelle qualcosa sanno, ci sono state azioni istituzionali e mediatiche, una brutta fiction, un film ancora peggio. Che orrore, dicono. Ma non basta a far venir loro voglia di sapere e capire, se non la Storia almeno le storie. Che sono tante, simili ma diverse.  Storie raccontate da chi c’era, in quegli anni lì e adesso non c’è più: la generazione di chi era adulto in quegli anni è sparita. Adesso sono i loro figli a raccontare del tempo in cui erano bambini.

Silvio Pecchiari Pecaric  l’ha fatto. Fuori dai confini è il titolo delle sue memorie. È anche una sorta di auspicio, come se, rievocando la sua storia, potesse finalmente essere fuori dai confini che hanno oppresso la sua infanzia.

Silvio Pecchiari Pecaric è nato nel 1940. In un paesino che, come lui, ha avuto due nomi: Albaro Vescovà e Skofije. Un paesino contenitore di molte disgrazie e dolori e separazioni, la guerra questo ha fatto, dappertutto, ma di più dove c’è stata anche la disgrazia di confini tracciati a tavolino, come capita capita, non si sa da quali geometri o militari o misuratori.

Nei posti dove Silvio ha vissuto la guerra finisce ma non finisce, nel 1945. Si trascina in avanti nel tempo, lascia in sospeso le cose ma anche le persone che aspettano che il confine si sistemi al meglio per loro. Ma se questo non avviene, non ce la fanno più e vanno via, scegliendo la parte dove si sentono meno oppressi. O quella, semplicemente, dove possono avere un lavoro o continuare a farlo, come accade al padre di Silvio che non vorrebbe dover scegliere o di qua o di là, o con i nostri o con quegli altri. Capita a tanti, in quegli anni e non solo in quelli. Gli importa della sua famiglia, della sua casa, della paga che gli danno nel cantiere in zona A. È stanco, ha fatto cinque anni di guerra lontano dai suoi, compresa la prigionia in Africa. Silvio è piccolo. Gli racconta qualcosa, come fa la mamma, poco però: in quegli anni lì non era usanza che i grandi parlassero più che tanto con i piccoli. Storie di parenti, a volte. Disgrazie, per lo più, come quella della zia sparita nel pozzo, non si sa perché, lasciando là davanti un paio di scarpe e basta. È normale, in quegli anni lì, fare elenchi di disgrazie, senza pensare più che tanto a cosa può provocare in un bambino che non capisce e si spaventa nel percepire il Male. Raccontano, ma non spiegano, i grandi. A Silvio non spiegano perché lasciano la casa di Skofije e vanno dai parenti in zona A, a Mackolje-Caresana. E non spiegano nemmeno perché, dopo, decidano di farsi una nuova casa, da soli, a Rabuiese. Sarà una speranza sbagliata: la prima linea di confine tra zona A e zona B, la linea Morgan, è ballerina. Oscilla e poi si ferma tagliando fuori paesini e i posti che prima erano dentro e ora sono Jugoslavia di fatto. Tocca andar via di nuovo, è il ‘piccolo esodo’ come l’ha chiamato qualcuno, quello degli scalognati su cui la Storia ha infierito di più. Un paradosso, quasi. Diventano ‘quei là’ sono ‘esuli’ che sarebbe una brutta parola, chi te la rivolge lo fa con cattiveria e disprezzo. È toccato anche a me, so cosa sia. Questi esuli dopo il ’54 devono essere stati proprio  un problema per chi se ne dovette occupare: gli alleati se ne andarono e lasciarono la rogna ad altri. Prefettura, Comuni, Opera Profughi. La famiglia di Silvio la sistemano in una caserma dei pompieri dapprima, in una baracca alle Noghere poi. E infine “ottenemmo un appartamento IACP a Zindis nel 1958”: così finiscono le memorie e il libro di Silvio Pecchiari Pecaric che ha diciotto anni. Potrebbe essere l’inizio di un altro racconto, con voce adulta. Ciò che ha narrato finora è con voce di bambino. Ricordi semplici ma non per questo meno intensi. La paura e la vergogna, i desideri, le brevi contentezze, le ipotesi sul domani. Sentimenti che non scambia con nessuno, che si tiene dentro e cui solo adesso, nei suoi ottant’anni, dà una forma scritta riuscendo a comunicare a chi legge il tono di fondo del suo vivere allora, contrassegnato dal senso di una dolorosa inadeguatezza, di un non sentirsi mai all’altezza della vita e degli altri. Sarà anche per quel senso di perdita, per quel senso di morte che non gli dà pace: la morte della nonna prima, del nonno poi, del cane. Lo rievoca con frasi brevi, come farebbe un bambino che guarda la realtà all’altezza dei suoi occhi e non è in grado di fare sintesi, di collegare i fatti tra loro, di alzare il livello dell’orizzonte, quello, caso mai, lo fanno gli adulti.

Quello che non c’è, in queste memorie essenziali, è l’idea di una ‘slovenità’ come appartenenza rassicurante e condivisa con altri. Le storie di identità fratturate o multiple, negate o ritrovate, son cose che lascia ad altri. Non sente il bisogno di dire ‘sono sloveno’ ‘eravamo sloveni’. Non sente neppure il bisogno del lamento. Al suo posto c’è qualcosa di sommesso, discreto, privo di enfasi quanto di ringhiosi rancori. In questo modo, in questa ricerca di pacificazione, la mestizia del suo raccontare risalta ancora di più, è la tonalità di fondo, è il dolore dei deboli e dei miti. Un sentimento quieto, somiglia all’oscillare delle foglie d’autunno quando si staccano dall’albero. Vive il suo autunno, il signor Silvio, come me, del resto. Entrambi sappiamo cosa sia e cosa possa contenere l’ipotesi di tempo che abbiamo davanti. Ma sappiamo anche cosa sia stato quello alle nostre spalle. Sappiamo le nostre storie.  Non vogliamo che si perdano, ‘come lacrime nella pioggia’. Per questo abbiamo scritto e scriviamo tutti e due.

 

 

Silvio Pecchiari Pecaric

Fuori dai confini

Memorie di un bambino

sulla linea Morgan

Battello, Trieste

  1. 204, euro