Fornace spenta

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di Giuseppe O. Longo

 

 

Dopo alcune svolte, la strada maestra prende lo slancio e affonda diritta nella campagna fra lo stormire dei pioppi. Per ingannare il tempo, Rigo e io ci raccontiamo delle storie, ma finisce sempre che parliamo della fornace, e le parole si fanno esitanti. Così, quando arriviamo davanti al cancello corroso, al muretto basso e slamato che a perdita d’occhio circonda il comprensorio vastissimo e disordinato di edifici grandi e piccoli in parte crollati e dominati dalla presenza magra e inquieta della torre di guardia, è inevitabile che ci arrestiamo e all’improvviso tacendo scrutiamo nell’ultima luce i cumuli di mattoni, le porte sfondate, la ciminiera mozza, i cassoni rugginosi della teleferica. È una fornace di tipo Hoffmann, dice Rigo con ottusa tranquillità. Non so da dove gli vengano queste nozioni sulle fornaci. Io non me ne intendo per nulla, quindi non faccio nessun commento. Lontano si sente abbaiare un cane, intorno a noi c’è il piccolo vento della sera. Noi stiamo lì, davanti ai cancelli sbilenchi, affascinati dalla torre di guardia che, nera contro il cielo, sembra una preghiera secca e insistente, un mormorio confuso di colore perso. Le fornaci mi hanno sempre inquietato, non tanto per il fuoco cupo e soffocato che nei forni seminterrati cuoce le pile di mattoni per ore e per giorni trasmutandone il colore, la compattezza e, forse, la sostanza col suo ardore veemente e trattenuto, quanto perché una fornace è fatta degli stessi mattoni che essa ha prodotto. È come se, per una circolarità mostruosa, la fornace si fosse costruita da sé: all’inizio raccogliendo a fatica dal suolo alido qualche grumo giallo d’argilla per formare i primi elementi costitutivi di questo congegno embrionale, e poi via via complicandosi, espandendosi e fortificandosi, attingendo sempre più copiosamente dal terreno la materia prima e dal bosco il combustibile e dall’aria intorno i misteriosi umori nutritizi e levitatori necessari alla crescita, e infine trasformandosi in una macchina ciclopica e inesorabile la cui unica funzione è quella di mantenersi e di espandersi attraverso un vorace metabolismo inorganico. Questo cieco finalismo chiuso in sé stesso, questa travolgente e famelica ossessione di trasformare tutto il mondo in fornace, con un progressivo movimento di digestione e di assimilazione che può aver termine solo grazie a un ultimo atto di cannibalismo, cioè con l’autoingoiamento, questa demenziale e frenetica attività è, per di più, agevolata e propiziata dai fornaciai: coi visi adusti e screpolati coperti dalle maschere di cuoio bruno, si muovono in quell’inferno come dèmoni incombustibili, avvolti nei pesanti mantelli di tela d’ortica, infocati dalla vampa rossastra del crogiolo, servi docili se non addirittura compiacenti di quella mostruosa creatura che si esaurisce tutta nell’atto continuo di partorire sé stessa dalle proprie viscere. Nelle fornaci di tipo Hoffmann, dice Rigo, il rendimento del combustibile raggiunge anche il quindici per cento. Di nuovo restiamo in silenzio, mentre il tramonto si spegne vicino alle pile gigantesche di mattoni, nelle gole interrate dei forni, intorno alla ciminiera mozza. Un tempo la fornace allargava nel golfo mutevole delle stagioni un’isola ardente e vorticosa, sempre uguale a sé stessa nella sua divorante incandescenza. E il calore, segno e prodotto di quel gigantesco parto contro natura che era la nascita della gran macchina, infiltrandosi come un metallo liquefatto nelle profondità della terra non poteva non fomentare la passione e il vizio, suscitare i fantasmi e i delitti. E perché nessuno disturbasse questa ignivora creazione, gli gnomi operosi avevano drizzato la spettrale torre di guardia. Ricordo certi pomeriggi d’autunno, quando spirava un vento umido e amaro che sapeva di oceano: venivo alla fornace, spenta già da chissà quanti anni, e aggrappato alle sbarre rugginose del cancello fissavo quei muti edifici… La torre di guardia è un messaggio indecifrabile. E sotto i piedi, a grande profondità, sento formicolare antichi rimorsi, accumulati in tanti anni di combustione tenace.