Collane di carta

| | |

Studiare lo scheletro dell’editoria, scavare in ogni genere di archivio, ricostruire assetti proprietari e societari, identificare le strategie di acquisizione dei titoli, il mercato, i formati, la grafica e i prezzi dei libri, e la loro incidenza sui segmenti di pubblico, a partire dai primi ottocenteschi passi degli italiani verso una più estesa alfabetizzazione. E trovare come filo conduttore di questa poderosa indagine la politica delle “collane”, quelle  popolari, che vanno in cerca dei numeri e non del prossimo Nobel, un processo quasi sociologico di pre-catalogazione di titoli a fini di mercato, che a partire dal secondo ‘800 comincia a puntare su target di lettori, per fidelizzarli ma anche mettersi in gara con altri marchi magari sullo stesso terreno. È il lavoro enorme e inedito cui si è dedicato – usando anche studi parziali di suoi allievi, onestamente dichiarati e ringraziati –  Bruno Pischedda, docente di Letteratura italiana contemporanea all’Università di Milano, che con Carocci ha pubblicato La competizione editoriale. Marchi e collane di vasto pubblico nell’Italia contemporanea (1860-2020).

Le scoperte sono molte, del resto l’indice mette in fila ben 400 collane. Prima constatazione: la nostra industria culturale è stata fin dal principio un terreno molto depresso, e i primi intraprendenti editori si sono rivolti all’estero – alla Francia prima di tutto – importando idee e titoli di largo consumo già testati altrove con successo. È l’epoca dell’industrializzazione, l’inizio della cultura di massa. Un processo che comincia con i “libri per signorine”, prosegue con la divulgazione educativo-didattica, e s’inoltra via via nei vasti sentieri colorati dei “generi”, dal rosa al noir, al giallo, al fantasy, sempre andando a caccia oltre i confini, cosa che continuerà in maniera dichiarata pure ai piani alti dell’editoria blasonata. Giulio Einaudi per esempio era dichiaratamente in continuo viaggio tra Francia, Germania, Inghilterra alla ricerca delle perle degli altri – quelle vere, adatte al catalogo cultural-politico dell’editore-principe che finirà per salire troppo in alto senza più misurare gli equilibri delle proprie forze economiche, ma che con i Coralli, i Supercoralli, la Nuova universale Einaudi, Narratori contemporanei, Narratori stranieri tradotti aveva magistralmente organizzato in collane la propria straordinaria produzione.

C’è però collana e collana. Quelle “popolari” analizzate da Pischedda hanno molti tratti in comune con la serialità, che non comincia solo con la narrativa. In Italia i primi best-seller sono stati gli spartiti musicali e i libretti d’opera diffusi da Ricordi, che nel 1875 aveva in catalogo 45 mila edizioni, dell’Aida verdiana aveva venduto 60 mila copie e ben 150 mila della romanza di Francesco Paolo Tosti, For ever and for ever: nella patria dell’opera, allora genere oltremodo popolare, la musica a stampa si propagava potentemente nelle case degli italiani, che secondo l’Istat nel 1861 erano per due terzi analfabeti. Ricordi aveva fra gli altri acquisito il fondo del triestino Carlo Schmidl.

A fine ‘800 parte anche la conquista di un pubblico nuovo, poco coltivato, considerato solleticabile: le donne, presumibilmente una prateria di ignoranti. Fanno ingresso tutte le sfumature del romantico. Nel 1884 Le Monnier vara la Biblioteca delle giovanette, che nel 1920 diventa Biblioteca delle giovani italiane (e qui troviamo la prima triestina: Ida Finzi, alias Haydée). Poco dopo, nel 1892, Licinio Cappelli acquisisce la rivista Cordelia, da cui fa sbocciare varie collane di libri col trionfo della prolifica ed edificante Jolanda, ma non sono da meno altre due triestine: Elda Gianelli e, soprattutto, Willy Dias, una firma da migliaia di copie per titolo. Passa un po’, e nel 1904 entra nell’agone Salani, che perfeziona il modello produttivo suddividendo in modo antropologico il target femminile (donne mature e smaliziate, nubende curiose, ragazzine sognatrici), mettendo a segno l’enorme successo dei fratelli Delly.  Insegue Sonzogno, che a inizio ‘900 s’inventa il libro distribuito in edicola e (per la Biblioteca universale) anche l’abbonamento a domicilio, né si ferma al rosa, ma proporrà Verlaine, Baudelaire, Tolstoj, greci, latini e perfino una traduzione del Corano. E tallona Emilio Treves, che affianca la Biblioteca amena per signorine al Fu Mattia Pascal di Pirandello, diversificando tra pubblico alto e basso. Scatta allora Mondadori: nel 1931 mette in orbita Liala con Signorsì. Vince il round  e dimostra che il rosa ormai è un affarone per tutti. Così  ci si mette pure Rizzoli, abbinando alla popolare rivista femminile Novella romanzi per signore senza molte pretese, e qui è il trionfo di Luciana Peverelli, ma anche di Mura, il cui Sambadù, amore negro esce con le illustrazioni del grande cartellonista triestino Marcello Dudovich (libro censurato da Mussolini, l’amore negro non passa).

Ed è sempre in questa vasta pianura del rosa che, nel 1981, Leonardo Mondadori erede del geniale Arnoldo segnerà, con cinica intraprendenza ma grande fiuto industriale (non culturale in quel momento), un’operazione che cambia la stessa natura “sacrale” del libro com’era stato fino ad allora inteso e trattato. Dall’accordo con la franco-canadese Harlequin nasce quell’anno la collana Harmony, il lancio pubblicitario costa alle casse ben 1,5 miliardi di lire, la distribuzione è capillare, il mandato dittatoriale: ogni volume vivrà un solo mese, poi finirà al macero, e avanti un altro. Il prodotto è così basso in ogni senso da mercificarsi fino all’”usa e getta”. In due anni Harmony vende 24,7 milioni di copie. Nel 1990 Mondadori ne dichiara 15 milioni. Il 50% delle lettrici ha un titolo di scuola media inferiore.

Quanto a collane però Mondadori è sempre in azione: basti pensare non solo alle fortune della bellissima Medusa, ma alla rivoluzionaria idea degli Oscar, il cui debutto fa data al 27 aprile 1965, ed è il primo vero progetto a rifarsi al pocket di tradizione anglo-americana e ai livres de poche (ancora la Francia maestra). Gli intramontabili Oscar interpretano la nuova missione dello strumento-collana, e cioè far girare a basso costo i migliori autori del catalogo proprio ma anche altrui, e spingersi in segmenti di mercato sempre più vasti. Il primo titolo, Addio alle armi di Ernest Hemingway, vende 210 mila copie in una settimana. Il secondo, La ragazza di Bube di Carlo Cassola,  446.800 copie tra 1965 e 1971. Lo slogan era: «Gli Oscar, libri-transistor che fanno biblioteca». Il nuovo supporto cartaceo, con le sue ben studiate linee grafiche, è dunque uno strumento che funziona dal punto di vista commerciale, ma in questo caso anche culturale.

Lo stesso articolato lancio Mondadori aveva già fatto nel 1929  per la serie I libri gialli, pubblicizzandoli come “scacciapensieri”, tra il 1930 e 1940 aveva reclutato 1100 nuovi autori, pubblicava 6000 titoli all’anno e tra 1946 e 1949 aveva tirato complessivamente quasi 1,4 milioni di copie. Né si può dimenticare la fantascienza, con la famosa serie di Urania, per un periodo diretta da Fruttero & Lucentini e poi dall’iperspecialista Giuseppe Lippi, cresciuto a Trieste alla scuola di Giuseppe Petronio, che con “democrazia critica” aveva cominciato a rileggere la cosiddetta Trivialliteratur secondo parametri di valore e disvalore intrinseco, scardinando l’aprioristica, élitaria gerarchia tra “letteratura” e “spazzatura”.

In una fase di stallo e di crisi, tra 1970 e 1980 (quando un “cartonato” arrivò a costare 30-40 mila lire senza per ciò sanare i bilanci aziendali) fu sempre Leonardo Mondadori a inventarne una nuova, con grande strillo: I miti, tascabili a basso prezzo ma di medio e/o alto contenuto, e soprattutto con firme celebri. I primi due best-seller,  Il socio di John Grisham e L’arte di amare di Erich Fromm, vendettero 700 mila copie in due mesi. E chi ha dimenticato, fra tanti e tanti, i coevi Millelire, coraggiosa incursione fra i giganti della piccola Stampa alternativa?

Ma quando il mercato è sazio, non lo manda a dire. Negli anni 1990-2000 la collana tascabile – nonostante l’esordio dell’einaudiana Stile libero – non cammina più. Arrivano i libri abbinati ai quotidiani, un’altra astuzia acchiappa-lettore. Ed è di nuovo un boom: secondo i dati raccolti da Pischedda, nel 2002 su 100 milioni di volumi venduti in Italia ben 44,4 erano allegati a giornali, fenomeno destinato a salire fino a 80 milioni nel 2005 (i librai, si ricorderà, non erano molto contenti…). Produzione di allegati a basso prezzo che continua tuttora alla grande, con serie semi-enciclopediche o, potenzialmente, da collezione.

E oggi? Abbiamo visto le impetuose concentrazioni editoriali. L’apice si è toccato, scrive con precisione l’autore, il 13 ottobre 2003 quando a Milano si è formato Gems, «un colosso multimarchio» che sotto il proprio ombrello ha finito per radunare una ventina di aziende editoriali, ma non scherza neppure Giunti che per successive acquisizioni ne controlla quindici. Vediamo però come sfuma via via il perimetro della tradizionale collana, specie per i generi un tempo confinati. Gli esempi che Pischedda riporta di questo nuovo «ibridismo» sono molti in ogni settore, ma eclatante è il destino dei gialli. Hanno invaso e pervaso il corpo stesso di molte case editrici, che lo trattano come prodotto universale e di prima fascia. Simenon targato Adelphi insegna. E il caso di Sellerio è lampante: all’insegna del giallo la casa editrice ha avuto una mutazione, grazie soprattutto al suo autore di punta (enorme fortuna industriale), e cioè al giallista seriale Andrea Camilleri con il suo onnipresente commissario Montalbano, transitato in serie tv. Altro segno decisivo del cambiamento di prospettiva: Camilleri è stato cooptato nella collana dei Meridiani Mondadori, nata – sempre copiando i francesi, da qui non si scappa – come esclusivo tempio dei classici consegnati alla storia. Dunque la mésalliance è servita, mentre i prodotti multimediali aprono nuovi panorami e sfide inedite.

Pischedda insomma ha realizzato “il libro dei libri”, non biografia di editori, né analisi di culture, ma storia di un’industria e dei suoi motori interni – con relative ricadute, si capisce, sul nostro sapere, sul nostro diletto, e anche sulle nostre eventuali perdite di soldini e di tempo, nel caso in cui la collana sia molto luccicante, ma le perle ogni tanto false….