Con gli occhi di Roberto Longhi

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Marco Antonio Bazzocchi ci offre un saggio di grande interesse, Con gli occhi di Artemisia, edito da Il Mulino

di Francesco Carbone

 

 

«Ogni uomo cerca i limiti della

propria libertà,  ognuno fa i suoi incontri.»

(Roberto Longhi, Morandi al «Fiore», 1945)

 

Ha una geografia felicemente complicata la storia della letteratura italiana. Chi per primo ce l’ha mostrata come un labirinto di centri interconnessi è stato Carlo Dionisotti in Geografia e storia della letteratura italiana (Einaudi 1967). Se non lo conoscete, compratelo subito. Qualunque cosa si legga di Dionisotti è una gioia. Anche nel Novecento questo carattere policentrico si è perpetrato, e in questo contesto ha una sua identità Bologna: lì l’arrivo nel 1934 di Roberto Longhi all’università, alla cattedra di Storia dell’arte, fu «uno degli eventi» essenziali, sia come «autentico punto di svolta nel metodo e nel linguaggio della critica d’arte italiane ed europea» (G. M. Anselmi e A. Bartoni, L’Emilia e la Romagna, in Storia e geografia vol. III, Letteratura italiana, Einaudi 1989), sia per il ruolo che Longhi ebbe per una generazione di artisti e intellettuali (tra gli altri Giorgio Bassani, Attilio Bertolucci, Pier Paolo Pasolini, Giovanni Testori, Giorgio Morandi, Francesco Arcangeli). La storia di Bologna sarebbe stata molto diversa senza Roberto Longhi, e la storia culturale dell’Italia molto diversa senza quella Bologna.

Marco Antonio Bazzocchi ci offre un saggio di grande interesse, Con gli occhi di Artemisia, in cui la portata della rivoluzione longhiana è raccontata sinteticamente nella prima parte del libro per poi offrirci quattro profili di autori che in Longhi ebbero una stella polare essenziale: la moglie Anna Banti, Bassani, Pasolini e Testori. Ma l’elenco avrebbe potuto essere ben più lungo, perché «la cultura italiana di mezzo Novecento è longhiana almeno quanto è crociana, se vogliamo misurare gli effetti di una visione intellettuale sulla base delle tracce che lascia e che ritornano a vivere al di là di essa».

Su quanto valga Roberto Longhi nella letteratura italiana del secolo scorso, si potrebbe scommettere su questo giudizio: «Da Cimabue a Morandi, curato da Gianfranco Contini […] è semplicemente uno dei tre vertici raggiunti dall’espressività stilistica nella prosa italiana del Novecento, accanto alle Varianti e agli Esercizi del Contini stesso, e all’opera di Gadda» (Alberto Arbasino, Ritratti italiani, Adelphi 2014).

Longhi precoce, drastico e battagliero, rivoluzionò, il modo stesso di concepire il racconto dell’arte italiana: non un placido scorrere di autori quietati nella catalogazione accademica, non bellezze rese innocue nel rigor mortis dei musei, ma opere e artisti ridisposti in una battaglia viva, originaria, tra elementi archetipi e irriducibili l’uno all’altro. Viene in mente la furia del giovane Nietzsche, che oggi leggiamo in tanti Frammenti postumi, contro i filologi talmente presi dalla passione fredda, da settori di cadaveri, delle opere del passato da perdere ogni sensibilità sulla vitalità di ciò che stavano minutissimamente analizzando (e sarà La nascita della tragedia del 1872). E forse non sarà troppo azzardato riconoscere assonanze tra la coppia nietzschiana di apollineo e dionisiaco e quella di Longhi i due concetti fondamentali della indagine di Longhi: scrive Bazzocchi che sotto gli occhi di Longhi la storia dell’arte italiana diventa «una vera lotta tra la luce e la linea», tra il predominio del disegno e quello del colore. La posta in gioco è tutt’altro che meramente tecnica: la tecnica cambia sempre assieme un’esigenza espressiva, che della tecnica si serve. Cultura del disegno vuol dire Firenze, il filum che va da Giotto a Masaccio a Michelangelo e ai manieristi: lì si cercava la rappresentazione dell’uomo voluto da Dio signore del creato, imago Dei al centro della creazione. È l’uomo di Pico della Mirandola nel De hominis dignitate (1486): «ti posi nel mezzo del mondo perché di là meglio tu scorgessi tutto ciò che è nel mondo». La figura umana predomina quindi sullo sfondo, sotto una luce universale e senza tempo, mai ferita dalla drammaticità dell’ombra ma esaltata dal chiaroscuro: luce non terrena, per la bellezza di un uomo ideale, platonico, viene da dire ancora esente dal peccato originale. Le linee del disegno quindi contornano sinuose ed esatte, segnano bordi che la luce non supera ma esalta: Botticelli, Verrocchio, Raffaello, Michelangelo…

L’egemonia di questa Firenze “apollinea” è ciò che Longhi per tutta la vita respinge, portando in primissimo piano, contro la «connessione muscolare tutta disegnativa» dei fiorentini, scuole e tradizioni pittoriche prima di lui trascurate, di fatto radicalmente alternative, che proprio grazie alla luce così come questa si dà nella realtà – cangiante e provvisoria – facevano «emergere gli aspetti primordiali del mondo» (Breve ma veridica storia della pittura italiana, Sansoni 1980): prima di tutti, i lombardi: tra gli altri, i Gentileschi, Savoldo, Lotto e ovviamente Caravaggio. Questa luce “dionisiaca” sarà non trascendente ma terrena, casuale, catturata nell’attimo in cui si manifesta; qui ogni gerarchia concettuale salta, uomini e cose ugualmente si riveleranno come macchie-luci emerse parzialmente dalle ombre. Il predominio del disegno scompare. Questi artisti, e genialmente Caravaggio, cercavano quella che Bazzocchi chiama «un’immagine-tempo», in cui «la realtà non è ordinata o composta ma si fa percepire in tutta la sua improvvisa scompostezza».

La scoperta – come un’America nuova nel cuore della nostra cultura – che fa Longhi del realismo radicale che si compie in Caravaggio, Bazzocchi la inquadra in una temperie culturale amplissima, che va da Proust alle fondamentali ricerche di Erich Auerbach sul realismo nella letteratura occidentale (E. Auerbach, Mimesis. Il realismo nella letteratura occidentale, Einaudi 1963, ed. originale 1946).

Bazzocchi su questi aspetti richiama opportunamente più volte Walter Benjamin, la sua concezione del passato come quel lato del tempo in cui i fatti e le cose non si abbandonano ormai inerti, ma come semi di potenzialità sempre pronte a ridarsi nel futuro. Come per Benjamin, per Longhi la storia dell’arte non può più essere la serva della cronologia: artisti solo nel tempo lontani si richiamano a vicenda, si legano in costellazioni essenziali: «Nella “galassia” costruita da Longhi possono verificarsi cortocircuiti improvvisi, le anacronie scardinano l’ordine delle cronologie»; la «”macchia” essenziale» in Caravaggio (Ultimi studi sul Caravaggio, 1943), pittore che non disegnava, appare a Longhi già annunciata nei  «grandi laghi vaporanti» di Piero della Francesca (Piero della Francesca, 1963). E viene in mente un documentario in cui Francis Bacon raccontava che proprio questo era il suo modo di stare nella assoluta contemporaneità (Th. S. Eliot) in cui tutta l’arte di dà nel presente: cercare nell’arte del passato la tradizione che serviva a lui, mettendo drasticamente da parte il resto: Rubens, Velasquez, Goya…

Più degli artisti, sono le opere stesse che agiscono le une sulle altre. Se Heinrich Wölfflin aveva pensato a una storia dell’arte senza quel feticismo dei nomi che oggi fa volare o precipitare il valore di un’opera solo per la sua attribuzione (il Salvator Mundi avventurosamente attribuito a Leonardo!), Longhi era arrivato a indicare come utopia una storia dell’arte senza nomi e senza date: solo di opere, operazione troppo intelligente per l’attuale umanità. In ogni caso, è chiaro che è sempre l’esigenza del presente – lo insegnava già Croce – che illumina di scorcio il passato. La linea Piero della Francesca-Caravaggio si rivela così più carica di futuro del «narcisismo» antropocentrico dei fiorentini: non sono stati gli impressionisti, pittori della macchia, della luce che accende drasticamente i colori di ogni cosa, il più radicale passo verso l’arte moderna?

Questione a cui Bazzocchi non accenna, in questa ridisposizione rivoluzionaria, diventa un elemento eccentrico Leonardo: Longhi, in particolare nel breve Difficoltà di Leonardo (1952), vide la sua pittura, anche nei suoi esperimenti più avventurosi, come l’applicazione di un «programma anti-impressionistico» ancora tutto dentro «la tradizione privilegiata e fiorentinissima del “chiaroscuro” astratto in “lume universale”». Furono allievi di Longhi a ricostruire il filum che da Leonardo – che fu diciassette anni a Milano – arriva a Caravaggio, con una prima mostra a Milano nel 2001 (catalogo Artificio Skira) e una seconda a Cremona nel 2004 (catalogo Electa).

 

Come farà Dionisotti per la storia della letteratura italiana, presentandocela come uno spartito polifonico e policentrico, scrive Bazzocchi che «potremmo dire che Longhi ha fatto delle provincie italiane allora ignorate i veri luoghi della bellezza artistica. Ha ridato vita a un’Italia di borghi e di chiese abbandonate, a un popolo minore, destinato presto a scomparire per effetto di quello che Pasolini chiamava ‘genocidio’».

Questo rimescolamento affascinante accade con una scrittura in cui stile e precisione coincidono. I barocchismi di Longhi, la scelta di termini rari e di costruzioni sintattiche ardue corrispondono alla necessità di un rigore estremo, per un avvicinamento all’opera d’arte mai del tutto compibile. Bazzocchi su questo dice l’essenziale: la scrittura ardua di Longhi procede «per scelte che devono provocare piccoli traumi sul lettore, a cui corrisponde (e cita Contini) “un’intensificazione dell’attenzione conferita”». L’opacità di un italiano moraviano e standard avrebbe reso impossibile la cosa. – Perché leggere, per esempio, le pagine di Longhi sulla cappella Contarini e non guardare direttamente e semplicemente La conversione di san Matteo di Caravaggio? Proprio per rallentarne e interrompere «di continuo il tempo della lettura diretta». Questo rallentamento è lo scopo essenziale del critico: direbbe Simone Weil, per quel miracolo che si manifesta solo nella piena attenzione. Con Longhi leggiamo una scrittura che serve al vedere. E chissà come troverebbe stupendo che oggi si possa leggerlo avendo vicino un cellulare che in un attimo fa apparire opere anche remote e prima sconosciute. Vogliono essere parole-occhi queste «parole conte ed acconce, con una specie di trasferimento verbale che potrà avere valore letterario, ma sempre e solo – vogliamo dirlo per umiltà – in quanto mantenga un rapporto costante con l’opera che tende a rappresentare» (Recensione a Enzo Petraccone, Luca Giordano, 1920). La cosiddetta interdisciplinarietà è il destino di ogni ricerca che cerca di andare al fondo delle cose: Longhi aveva scritto che «si tratta di riconsegnare la critica e perciò la storia dell’arte non dico nel grembo della poesia, ma, certamente, nel cuore di un’attività letteraria» (Principi per una critica d’arte, 1950); e nel saggio su Il Caravaggio e la sua cerchia del 1951 aveva dichiarato – meravigliosa dichiarazione di poetica – il rifiuto dei termini specialistici, gli –ismi che ammorbano tutte le critiche di tutte le arti, «avendo fermamente stabilito di non più usare in critica d’arte […] parole a desinenza concettuale e cioè inadatte ad esprimer cose che non sono nate come concetti: le opere d’arte, per l’appunto». Tanto serve per una critica d’arte che sia sempre soprattutto «una instancabile “educazione sentimentale”» (Morandi al «Fiore», 1945).

 

 

Marco Antonio Bazzocchi

Con gli occhi di Artemisia

Roberto Longhi e

la cultura italiana

Il Mulino, Bologna 2021

  1. 192, uro 17,00