Carlo Rovelli e la bellezza

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La teoria della relatività generale assieme alla meccanica quantistica per spiegare cosa accade in un buco nero

di Francesco Carbone

 

«Provate a seguirmi.»

(Carlo Rovelli, Buchi bianchi, Adelphi 2023)

 

«O voi che siete in piccioletta barca…»

(Dante, Paradiso, II, 1)

 

La parola chiave dei Buchi bianchi di Carlo Rovelli (Adelphi 2023) è bellezza. C’è su YouTube un video molto interessante (tutti i suoi lo sono), in cui Rovelli, ateo con sandali francescani, dialoga con il cardinale Gianfranco Ravasi, elegante e coltissimo: gli dice che non ha bisogno di credere in Dio per essere grato all’universo, perché l’universo è bello. Anche il saggio Epicuro la pensava così. L’esergo scelto da Rovelli per i Buchi bianchi è una frase di Einstein: «l’esperienza più bella» è il senso del mistero, e questo sentimento è la «culla della vera arte e della vera scienza». La bellezza è la porta per entrare nel mondo dei Buchi bianchi.

Anche in Relatività generale (Adelphi 2021), Rovelli della teoria di Einstein ha voluto farci riconoscere prima di tutto la bellezza: «ci sono capolavori assoluti che ci emozionano intensamente: il Requiem di Mozart, l’Odissea, la Cappella Sistina, Re Lear… Coglierne lo splendore può richiedere un percorso di apprendistato. Ma il premio è la pura bellezza. […] La relatività generale, il gioiello di Albert Einstein, è uno di questi».

La frase «il premio è la pura bellezza» era già nelle fortunatissime Sette brevi lezioni di fisica (Adelphi 2014). Wikipedia ci dice che ha venduto già un milione e trecentomila copie e che è stato tradotto in 42 lingue: tra i libri italiani, solo Pinocchio ne ha avute di più: 260. Quando Adelphi pubblicò la prima edizione, la stampò in 3.000 copie. Ne vendette 300.000: c’è da rinfrancarsi sulle possibilità del mercato editoriale italiano.

C’è molto più pathos, pensiero e bellezza in un saggio di Carlo Rovelli che in uno dei tanti romanzi sull’ombelico psichico dei nostri contemporanei. In mancanza di scrittori che guardino leopardiamente alle stelle e all’anima, nell’impossibilità di appassionarsi alle epopee dei tinelli, alle tragedie del condominio, all’ennesimo otto e mezzo del regista che non sa che dire, alla fantascienza che ci annuncia ormai regolarmente – avesse almeno un effetto – che il futuro della specie umana è un’estetizzata autodistruzione, si può godere delle avventure della ricerca dei poetici scienziati. Poesia e rigore stanno sempre insieme.

Stupendi libri di fisica per lettori curiosi e non specialisti sono usciti in questo mezzo secolo: sono i saggi di Stephen Hawking, Richard Feynman, Anton Zeilinger, Benjamin Labatut, Brian Greene e certo di tanti altri. Tra questi ci sono tutti i libri di Rovelli pubblicati da Adelphi: il nostro preferito è Helgoland (2020), sulla scoperta del giovanissimo Werner Heisenberg del principio di indeterminazione: uno dei fatti capitali della storia della conoscenza del XX secolo, da leggere assieme almeno a Quando abbiamo smesso di capire il mondo di Labatut (Adelphi 2021).

Veniamo ai Buchi bianchi. È un libro diverso dagli altri perché qui Rovelli ci racconta la ricerca che sta portando avanti da anni e che non è ancora compiuta, posto che lo possa essere mai. Una delle suspense è proprio questa. La questione è cosa accade dentro un buco nero e quale implicazioni può avere sulla conoscenza dell’universo, e di noi stessi: perché non c’è conoscenza nuova che non cambi chi la realizza.

Fino a non molti anni fa la stessa esistenza dei buchi neri era solo una delle possibilità implicite nella teoria della relatività generale di Einstein. Molti scienziati, come lo stesso Einstein, non credevano che potessero esistere. Oggi grazie ai telescopi i buchi neri li vediamo, li fotografiamo, studiamo le piegature a spirale dello spazio che li circonda sul loro bordo: sul loro orizzonte degli eventi. Cosa accada oltre quel limite è ancora un mistero che solo la matematica, che Rovelli chiama «lo sguardo della mente», può indagare. Per il momento, ancora solo congetturalmente.

I saggi di Rovelli sono sempre almeno tre cose: il racconto di alcuni esiti della fisica moderna, la storia di come la ricerca ci sia arrivata e un’appassionante lezione sul metodo scientifico. La filosofia – cosa vuol dire conoscere? cos’è il tempo? com’è fatta una teoria? – è necessariamente chiamata in causa: s’intreccia (direbbe un fisico: in un non risolvibile stato di complementarità) con ogni parola del suo discorso. Rovelli scrive benissimo, ha il senso del timing e della suspense. Ha una sapienza letteraria che lo rende avvincente. Qui poi la letterarietà della narrazione della sua teoria dei buchi bianchi – una possibile conseguenza della teoria gravitazionale quantistica in loop – è dichiarata, tra l’altro, dal prendere a modello il viaggio di Dante guidato da Virgilio: Virgilio è la teoria della relatività generale di Einstein; oltre Virgilio, si può dire la sua Beatrice, c’è la fisica quantistica. La Commedia viene citata, se abbiamo contato bene, 25 volte in 115 pagine.

Buchi bianchi è quindi tanto bello quanto ambizioso, e quest’ambizione è bella: per entrare in un buco nero, ci dice l’autore, occorre unire la relatività di Einstein con la fisica quantistica. Trovare il legame tra il Virgilio della relatività e la Beatrice della fisica delle microparticelle è la grande sfida della scienza contemporanea. Fino ad ora, quantistica e relatività hanno proceduto parallelamente, quasi come coniugi separati in casa: Einstein spiega benissimo il mondo delle cose per noi visibili, dalle molecole alle galassie, ma “impazzisce” quando scende nell’indeterminabile mondo dei quanti: in questo si trova molto più a suo agio la matematica probabilistica della meccanica quantistica, che ad Einstein non piaceva («Dio non gioca a dadi»; risposta di Niels Bohr: «smettila di dare ordini a Dio»).

Eppure i mattoni che fanno l’universo sono i quanti, l’universo è uno, e una deve essere la sua logica: il rapporto tra la grande casa del cosmo e i singoli minimi mattoni che la compongono è ancora enigmatico.

Intanto: come siamo arrivati ai buchi neri?

Rovelli ci racconta della lettera che il giovane fisico tedesco Karl Schwarzschild scrisse nel 1915 ad Einstein dal fronte orientale della Grande Guerra («ho fatto una passeggiata nella terra delle vostre idee»): dalla teoria della relatività generale Schwarzschild aveva dedotto che possono esistere luoghi dello spaziotempo in cui la materia si fa talmente densa che la sua forza di gravità inghiottirà anche la luce, e che il tempo lì si ferma: sono proprio le equazioni di Einstein che permettono di dirlo! Eppure Einstein non ci credette, e si sbagliò. Non ci credette perché non poteva concepire che ci fossero dei luoghi nell’universo – che oggi sappiamo essere «miliardi di miliardi» – in cui tutto finisce: masse nere, ipercompresse e chiuse in se stesse, in una non-storia senza più uscita. Le equazioni che lo dimostrano, scrive Rovelli, sono «forse le più belle della fisica». Ancora la bellezza. Una bellezza della teoria «le cui predizioni – spettacolari e inaspettate – sono state finora tutte verificate».

Alla «singolarità di Schwarzschild» è dedicato anche un capitolo non meno appassionante di Quando abbiamo smesso di capire il mondo di Benjamin Labatut: uno dei più bei libri degli ultimi anni.

Scrive Rovelli che attorno al buco nero si forma «un guscio, una superficie sferica, dove tutto diventa bizzarro: gli orologi – che rallentano sempre in vicinanza di ogni massa – qui arrivano addirittura a fermarsi. Il tempo si congela»; e per capire cosa vi accada non ci si può più affidare al Virgilio-Einstein, ma alla Beatrice-Heisenberg (per riassumere in un nome la ricerca di tanti).  Come Virgilio lascia Dante appena oltre il muro di fuoco che separa il Purgatorio dall’Eden, Rovelli lascia Einstein: perché nella scienza varrà sempre il comandamento «se incontri il Buddha, uccidilo» (i filosofi dicevano «amicus Plato, sed magis amica veritas»).

Usando Einstein oltre le sue stesse conclusioni e combinandole con la meccanica quantistica, Rovelli ci racconta i possibili «effetti quantistici» che accadrebbero dentro un buco nero, nel quale a un certo punto, che si può probabilisticamente calcolare, la massa rimbalza, come «un pallone da basket»: è il buco bianco. Che ci dica in modo semplice cose difficili Rovelli lo sa bene: «provate a seguirmi. Se vi perdete nei paragrafi successivi non importa, non è grave (si perdono in molti). Ma se riuscite a seguire, è strepitoso quello che combina la relatività del tempo»; «Cosa succede esattamente allo spazio e al tempo nel momento del rimbalzo? La teoria quantistica ci dice che quello che accade durante il salto non esiste, non ha forma, dimensione, proprietà»: «in quella transizione spazio e tempo si dissolvono in una nuvola di probabilità, al di là della quale riprendono la loro struttura», e il buco nero si svuota diventando bianco.

Il buco nero ha quindi una storia, che si svolge nel tempo. E il tempo di questa trasformazione sarà istantaneo nel buco nero ma di miliardi di anni per noi che lo vediamo da lontanissimo: un rallenty che la relatività generale sa calcolare.

Questo è stato previsto per la prima volta da David Finkelstein, che nel 1958 dimostrò che, se oltrepassando l’orizzonte degli eventi finissimo in un buco nero, a noi non succederebbe nulla; mentre a chi ci osserva dalla Terra sembrerebbe che, arrivati a quel bordo, il tempo per noi si sia congelato. Chi ha visto il film Interstellar (2014) capirebbe subito. Il consulente scientifico di Interstellar è stato Kip Thorne, che poi vinse il Nobel per il rivelamento delle onde gravitazionali.

Anche le equazioni di Finkelstein sono una conseguenza della teoria della relatività generale: non esiste un tempo assoluto ma una rete fittissima tra tempi diversi nei diversi luoghi che si determinano a vicenda. Scrive Rovelli: «la tessitura del mondo è in queste relazioni fra i tempi. Non c’è il tempo universale: la realtà è la rete tessuta fra i tanti tempi locali dalla possibilità di scambiarsi segnali». Mentre all’interno della stella collassata il rimbalzo della massa che trasforma il buco nero in buco bianco accade in un istante, «fuori, possono essere passati milioni di anni».

David Finkelstein c’interessa anche, per un suo articolo sulla Melancolia I di Dürer, che Rovelli ci riassume: Dürer «mette in scena la melanconia di coloro che si sforzano invano di raggiungere verità e bellezza assolute». Oggi potremmo anche vederci l’angelo che resta fuori dell’orizzonte degli eventi e guarda quel punto inattingibile dove il suo tempo per noi si congela… Questa malinconia diventa in Einstein e infine in Rovelli senso della bellezza del cosmo, e accettazione della finitezza umana. Non c’è più traccia dello scandalo che provocava a Pascal il mondo sconfinato di Copernico, quell’universo che «non sa nulla», in cui l’uomo non è che una «canna pensante» che però sa – solo lei – che dovrà morire, e che implora che Dio esista.

Dopo averlo letto, restano ancora una volta un grande senso di stupore e chissà quante domande.

 

 

Carlo Rovelli

Buchi bianchi

Adelphi, 2023

  1. 144, euro 14,00