Contro il “mostrificio”

| |

«Un sistema di società commerciali, curatori seriali, assessori senza bussola e direttori di musei asserviti alla politica sforna a getto continuo mostre di cassetta, culturalmente irrilevanti e pericolose per le opere. è ora di sviluppare anticorpi intellettuali, ricominciare a fare mostre serie, riscoprire il territorio italiano». La frase citata campeggia, sulla copertina di un volume benemerito, sintetizzandone efficacemente il contenuto, al punto che non risulta necessario nemmeno aprire il libro, Contro le mostre, scritto da Tomaso Montanari e Vincenzo Trione, pubblicato da Einaudi nel 2017. Con rincrescimento, dobbiamo constatare, a sei anni di distanza, che gli “anticorpi intellettuali” non sembrano inoculati con successo nelle coscienze, anzi: il “mostrificio” sembra godere di un crescente successo presso fondazioni di banche ed enti locali del Belpaese.

Tra molti altri, anche – per esempio – il Comune di Trieste ha delegato a un paio di suoi “fornitori di fiducia” la programmazione degli eventi espositivi, abdicando di fatto all’opportunità di darsi un’autonoma politica culturale e limitandosi a stipulare contratti basati sulle proposte che le ditte fornitrici del servizio, di volta in volta, propongono all’Ente, sulla base delle proprie disponibilità di “pacchetti” preconfezionati, spesso collaudati altrove in precedenti edizioni dei medesimi eventi. A prescindere da considerazioni sui costi e ricavi di tale sistema per il Comune (le società private che offrono i loro servizi non sono scelte sulla base di gare, ma vengono interpellate per  “chiara fama”), nel corso del tempo ciò che tale modus operandi ha prodotto è stato, ed è, un eterogeneo campionario di eventi espositivi. La programmazione ha così mescolato mostre d’arte propriamente dette (“Monet e gli impressionisti in Normandia”, “Escher”, “I Macchiaioli”) con una di rievocazione storica: “Disobbedisco. La rivoluzione di d’Annunzio a Fiume 1919-1920” (che ha lasciato alla città anche il dubbio privilegio di fregiarsi della copia di una brutta statua del vate), ad altre di problematica catalogazione quali “Frida Kahlo Il caos dentro” (francamente imbarazzante, v. Il Ponte rosso n. 78 e 79), ”Cracking Art. Incanto” (animali in plastica, prodotti in serie ed esibiti tra Salone degli Incanti e piazze del centro cittadino), “Videogames!”, “I love Lego”.

Come si vede, nulla, ma proprio nulla a che vedere con il territorio, né con la sua cultura figurativa. In taluni casi, nemmeno nulla a che vedere con la cultura in genere, con il confezionamento cioè di un prodotto espositivo che risulti basato su un presupposto che metta in evidenza una lettura nuova di autori ed opere ampiamente conosciuti, oppure che suggerisca accostamenti ideali tra artisti apparentemente distanti tra loro. Basata su qualunque motivazione, insomma, che ponga in comunicazione tra loro curatori, specialisti della materia e visitatori curiosi e interessati, in grado di uscire dalla mostra portando con sé qualcosa di più di un catalogo o di una serie di sottobicchieri in plastica acquistati alle forche caudine del bookshop attraverso il quale si deve passare per riguadagnare l’uscita.

Al contrario, le mostre proposte dal Comune di Trieste e scelte da un catalogo di disponibilità dei vari fornitori, che comprensibilmente hanno come obiettivo principale il profitto derivante dallo sbigliettamento, dalla vendita dei relativi cataloghi e oggettistica varia, dalla liberalità dell’ente con cui si stipula il contratto, mentre la loro controparte si assicura visibilità sugli organi d’informazione e il plauso di commercianti ed operatori alberghieri, della ristorazione e la scalata nelle statistiche riguardanti il flusso turistico, che sta in effetti premiando ampiamente la città.

Perché abbiano qualche effetto gli “anticorpi intellettuali”dei quali parlano Montanari e Trione sarà necessario attendere che la Cultura – con la maiuscola – cessi di essere considerata come la sottosezione povera dell’Assessorato al Turismo.