Un poeta tra amore e follia

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La vita di Dino Campana tra manicomi, una tipografia e l’amore per Sibilla Aleramo

di Nicola Coccia

 

Un mistero mai svelato, un libro introvabile, un amore travolgente. È la storia di Dino Campana, un poeta straordinario, umiliato in vita, ma osannato subito dopo la morte. Nacque a Marradi, sull’Appennino Tosco-emiliano il 20 agosto 1885. Si iscrisse, a 19 anni, alla facoltà di Chimica a Bologna e poi a Genova. Fuggì a Milano e poi in Svizzera e Francia fino a quando il padre non lo fece rinchiudere nel manicomio di Imola. Uscì e si imbarcò per l’Argentina dove fece il bracciante, il musicista, il pompiere. Ritornò vagabondando per Belgio e Francia. Il padre lo fece  rinchiudere di nuovo. Entrò nel manicomio di  San Salvi, a Firenze, il 12 gennaio 1918 e da lì venne trasferito in quello di Castelpulci, a Badia a Settimo, nel comune di Scandicci. Vi rimase 14 anni. Morì il 1° marzo 1932, proprio quando stava per essere dimesso. La morte, secondo il referto dei medici, fu causata da una  «setticemia  acutissima». Aveva 47 anni. Quasi un terzo della sua vita l’aveva passata negli ospedali psichiatrici. Ma la cartella clinica di San Salvi non si trova. Resta il mistero della sua malattia. Forse ereditata da uno zio o forse solamente temuta dai suoi genitori.

Dino Campana è il poeta di un solo libro che nessuno voleva pubblicare. Nel 1913 consegnò il manoscritto, intitolato Il più lungo giorno, a Papini. il quale lo lesse e lo dette a Soffici che durante un trasloco lo perse. Campana lo richiese invano. Una tragedia. Tornò a Marradi e nella soffitta della sua casa, in via Pescetti 1, con l’aiuto della sua  memoria, lo  riscrisse da capo, fra dicembre e gennaio. Il libro prese il nome di  Canti orfici. Il tipografo di Marradi, Bruno Ravagli, voleva 200 lire per stamparne mille copie. L’amico Luigi Bandini organizzò una raccolta fondi. Ogni sottoscrittore doveva versare due lire e cinquanta. In cambio avrebbe avuto una copia del libro. Servivano 80 finanziatori. Ne trovarono 44. L’importo di 110 lire venne consegnato a Ravagli. Campana si impegnò a versargli le altre 90 lire man mano che  avrebbe venduto il libro. I Canti orfici vennero stampati nel  luglio 1914. Al poeta toccarono venti copie. Le vendeva per strada o nei caffè di Firenze e Bologna. Più volte riprese le copie dal tipografo, il quale una decina di anni dopo chiuse la sua attività. Nel 1930 mentre si trovava rinchiuso nel manicomio di Castelpulci, scrisse al fratello Manlio invitandolo a recuperare le copie del suo libro che erano rimaste da Bruno Ravagli. Nella tipografia c’erano  ancora 210 copie. I libri vennero portati in un mezzanino di casa Campana. Al passaggio del fronte, secondo Antonio Castronuovo, vennero bruciate dalle truppe anglo-indiane, per scaldarsi.

Emilio Cecchi fu uno dei pochi a parlar bene di Campana insieme a Soffici, il quale fece scoprire i Canti a Sibilla Aleramo. Lei aveva quarant’anni e un passato da donna emancipata: divorziata dal marito, perso l’affidamento del figlio, amante fra l’altro di Cardarelli e Boccioni. Campana ne aveva 31, parlava cinque lingue, conosceva la letteratura italiana dal ’300, quella americana e recitava a memoria le poesie di  Walt Withman. Sibilla Aleramo (il suo vero nome era Rina Faccio) gli scrisse. Si incontrarono il 3 agosto del 1916 al Barco di Rifredo, vicino a Borgo San Lorenzo. Mentre la prima  guerra mondiale infuriava, fra i due scoppiò l’amore, travolgente e disperato. Scriveva Sibilla: «Sei tu che mi squassi? Che cosa m’hai messo nelle vene?  E sempre ho negli occhi quella strada col sole, il primo mattino, le fonti dove m’hai fatto bere, la terra che si mescolava ai nostri baci. Prendimi, tiemmi, io non ti lascio, bruceremo». E ancora: «Corro, appena il treno mi porta via da questa stazione che è diventata la mia casa. Il viaggio è lungo, penso ai suoi capelli scompigliati, al suo maglione malandato e so che di lui potrò nutrirmi. So che lo troverò lì, tra i suoi monti, steso sull’erba con i suoi fogli, i suoi mille fogli, a lanciar parole al vento a farsi trascinare da questa pazzia a vomitare nei burroni le sue poesie per sentire l’eco recitare come un bambino reverente». Sibilla e Dino si presero, si lasciarono e si ripresero. Camminarono, viaggiarono, si amarono. Fino al 13 settembre 1917 quando Campana, alla ricerca disperata di Sibilla, venne fermato a Rubiana, a una trentina di chilometri da Torino, perché probabilmente senza documenti. Venne arrestato. Il loro ultimo incontro si svolse nel carcere di Novara.

Molti anni dopo, il colpo di scena. Alla morte di Ardengo Soffici, avvenuta il 19 agosto 1964, i familiari cominciarono  a mettere ordine nelle carte del pittore. In un baule trovarono il manoscritto che Dino Campana aveva consegnato a Papini e che Papini aveva passato a Soffici. La notizia del ritrovamento venne data il 7 giugno 1971 da Mario Luzi sul Corriere della Sera. Sì, ci sono differenze con i Canti orfici, ma non tantissime. La memoria di Campana  era stata prodigiosa. Il manoscritto è stato messo all’asta da Christie’s a Roma e comprato dall’Ente Cassa di Risparmio di Firenze per 175.000 euro. L’Ente Cassa lo ha poi donato alla Biblioteca Marucelliana di Firenze che dal 20 marzo 2005 lo ha reso consultabile liberamente nell’edizione digitale. Ma anche quella  stampata da Ravagli a Marradi costa poco. Sul mercato antiquario si aggira fra gli 8 e 10 mila euro. In giro ce ne dovrebbero essere circa 800 copie di quella prima edizione. Ma è stata fatta anche una ristampa anastatica e molte altre edizioni.

Di questo libro introvabile, di questo mistero mai svelato, di questo amore travolgente, restano i luoghi, pieni di suggestioni. La soffitta di via Pescetti, a Marradi, dove  Campana riscrisse a memoria i Canti orfici, e poi il Barco di Rifredo, Casetta di Tiara, a Palazzuolo sul Senio, Villa La Topaia dove Sibilla passò l’estate del 1916. E l’albergo “Il Lamone”, a Marradi, dove Sibilla e Dino si amarono la notte di Natale. Ancora oggi ci sono innamorati che prenotano una stanza in quell’hotel per vivere in una sola notte l’amore che Dino e Sibilla accesero e fecero durare un anno intero. E poco importa se l’albergo non è più quello, ma si è trasferito poco lontano. È rimasta l’insegna, ma anche l’incanto, la suggestione, la magia, la pazzia.