CONVIVERE A TRIESTE (1/2)

di Pierluigi Sabatti

 

Trieste è da sempre un mosaico di etnie. Era inevitabile, vista la sua posizione geografica. Collocata al confine di tre mondi: il latino, il tedesco e lo slavo e incuneata nell’angolo più a Nord del Mediterraneo, che la rendevano, e dovrebbero renderla ancora, l’approdo ideale per uomini e merci diretti verso l’Europa di mezzo e i Balcani o da essi verso Oriente. Lo testimonia la scena LXXXIV di quel racconto di pietra che è la Colonna Traiana a Roma, dove si rappresenta lo sbarco dell’imperatore nel bacino maggiore del porto dell’epoca (il 105 d.C.), che si trovava dov’è ora Piazza Unità, cuore della città. Dietro il corteo imperiale si possono vedere le facciate degli edifici, in particolare il teatro che si affacciava sul mare, la linea delle
mura che salgono sul monte e il colle di San Giusto.
Traiano scelse Tergeste per cominciare la sua seconda guerra della Dacia perchè la città costituiva la base ideale per addentrarsi nei Balcani.
Porta di Roma sui Balcani, duemila anni fa, porta della Mitteleuropa sul Mediterraneo, porta di Sion per gli ebrei che, nel secolo scorso, fuggivano dall’Europa, porta dell’Occidente sulla Cortina di Ferro.
Era logico che in essa s’incontrassero e scontrassero diverse comunità etniche. Ma non ripercorrerò ora la storia dei popoli di Trieste dalla fondazione della città, anteriore a quella di Roma. Ci vorrebbero ore.
Lasciamoci dietro un po’di secoli e veniamo agli inizi del 1900, di quel fatale secolo breve, nel quale tutto cambiò. A cent’anni da quegli eventi è giusto ricordare, riflettere e chiederci com’è la nostra città oggi. La cartolina che spiega la Trieste di quegli anni rappresenta via del Molino a Vento, alla prima periferia cittadina, lungo la quale ci sono soprattutto donne che vendono abiti usati. Sono abiti di tutte le fogge, alcuni frutto di scambi, perché chi arrivava in città con il costume nazionale o con i rozzi abiti del contadino spesso li lasciava per comperarsi un vestito “normale” e sentirsi più cittadino. Bisognava presentarsi dignitosamente a cercar lavoro in una città in rigoglioso sviluppo economico. “La mia città che in ogni parte è viva” avrebbe scritto Saba il più grande poeta triestino.
E veniamo alle etnie: oltre agli italiani croati, una forte comunità ebraica. E ancora piccoli ma vivaci nuclei di greci, serbi, armeni, svizzeri, albanesi, boemi, polacchi, turchi. Escono giornali almeno sette lingue (italiano, sloveno, tedesco, croato, inglese, francese e greco). Tra il 1863 e il 1902 nascono (e muoiono) in città 576 tra quotidiani e periodici come scrive Silva Monti in una preziosa ricerca storica. La tipografia del Lloyd è comunque in grado di stampare in tutte
le lingue del mondo. Una policromia linguistica che colpisce un giovanotto irlandese approdato quasi per caso su quei lidi nel 1904. Si chiama James Joyce e quella Trieste lo influenzerà a tal punto da ispirargli il suo capolavoro, l’Ulisse che lì comincia a scrivere, ma anche un’opera di difficilissima digeribilità come i Finnegans Wake in cui gioca con il linguaggio, sicuramente stimolato da quella babele di idiomi che incontrava uscendo di casa. Lo afferma uno dei più illustri studiosi di Joyce, John McCourt, irlandese come lui, che vive tra Trieste e Roma, nel suo fondamentale James Joyce; gli anni di Bloom, una delle opere che, oltre a fornire una formidabile e innovativa biografia di Joyce, descrive compiutamente l’atmosfera che si respirava in città negli anni tormentati e vivaci che precedettero il primo conflitto mondiale.
Al viaggiatore che volesse avere la prova tangibile di questa varietà etnica e culturale basta fare un giro per la città, guardando i suoi edifici per scoprire che il Nobel Ivo Andric, aveva lavorato al consolato del Regno di Jugoslavia in piazza Venezia. Sempre per restare in tema serbo, si osservi il bassorilievo su Palazzo Gopcevic, che fronteggia il Canale, dedicato alla battaglia di Kosovo Polje, che nel 1389 segnò la sconfitta dei serbi nella loro lotta contro gli ottomani, ma anche la morte del sultano Murad I. Sul versante religioso si trovano la Sinagoga di via Giotti, la chiesa serba di san Spiridione, quella greca di San Nicola e ancora la chiesa luterana neo-gotica di largo Panfili, che rappresentano ulteriori tasselli di questo mosaico etnico. Infine non deve mancare un giro per via della Pace per vedere i cimiteri delle differenti religioni, compresa una piccola moschea, archivi di pietra che custodiscono questa storia.
Il giro è consigliato anche a quanti si fanno sedurre dalle sirene leghiste contro gli immigrati.
Che c’entrano gli immigrati di oggi?
C’entrano eccome, visto che Trieste è città di immigrati. E non erano tutti come Antonio Cassis Faraone, arrivato con i forzieri delle Dogane d’Egitto, ma era miseria, carestie, persecuzioni, guerre.
Facciamo un passo indietro e guardiamo, anche in cifre, com’era la situazione nel primo decennio del Novecento: Trieste entra nel XX secolo in una fase di formidabile sviluppo demografico. Nel 1880 la città ha 140.000 abitanti. Nel 1913 240.000: 100.000 in più in 33 anni. Una situazione paragonabile soltanto a quanto accadeva negli Stati Uniti d’America con la “nuova frontiera”. Dal 1900 al 1914 la popolazione cresce di circa 5.000 unità l’anno.
In base al censimento del 1910 gli italiani presenti sul territorio del comune di Trieste sono 170.000, gli “slavi” (sloveni, croati e serbi) 38.000.
I risultati del censimento vennero contestati dall’associazione slovena “Edinost” perché la domanda che veniva posta ai censiti era quale fosse la loro “lingua d’uso”, senza specificare se si trattasse di lingua usata in famiglia, sul lavoro o in ambito sociale. Secondo gli sloveni l’ambiguità del quesito era voluta: i rilevatori, tutti dipendenti comunali, avevano avuto il mandato da parte della Giunta, a guida del partito liberal-nazionale italiano, di gonfiare il dato riguardante appunto gli italiani. Fanno ricorso e il luogotenente Hohenlohe rivede i dati, in diversi casi convocando di persona i censiti sui quali c’erano maggiori dubbi. La rilevazione definitiva cambia: sono 148.398 italiani, 56.916 sloveni, 11.856 tedeschi e 2.403 serbo-croati. Il nuovo risultato viene contestato dai liberalnazionali italiani, i quali sostengono che le autorità asburgiche volevano penalizzare gli italiani. A prescindere dalla precisione dei dati, un fatto è certo: il risultato di un tale melting pot è una straordinaria vivacità  culturale della città. Sul podio del teatro Verdi salgono musicisti come Mahler, Richard Strauss, Mascagni, Toscanini.
Al Rossetti recitano Sarah Bernhardt, Adelaide Ristori, Ermete Zacconi, Ermete Novelli, Ruggero Ruggeri. Il Politeama ospita a partire dal 1910 anche alcune “Serate Futuriste” che Marinetti stesso indica fra le tappe più riuscite del movimento.
Questo per restare all’ambito italiano, ma sloveni e tedeschi non sono da meno.
Gli sloveni – spiega Miran Košuta, docente di Slavistica del nostro ateneo – sin dal medioevo costituiscono l’etnia maggioritaria del circondario triestino vantando però una significativa presenza pure in città. Prima ancora di diventare porto franco nel 1719, la Trieste emporiale non rappresentava per gli sloveni soltanto la meta di costanti inurbamenti e di piccoli commerci, ma anche un importante centro sociale, economico e culturale. Nel XVI secolo vi opera per esempio il predicatore protestante Primoz Trubar, padre della lingua slovena.
Tuttavia, appena dopo il 1848 – quando in seguito alla “primavera dei popoli” gli sloveni acquistano una moderna coscienza nazionale e rivendicano un’autonomia politica in seno all’Impero asburgico – che inizia a svilupparsi anche nel Litorale triestino e goriziano una vivace attività culturale slovena. Nascono biblioteche, scuole, teatri. Nel 1904 viene portato a termine, su progetto dell’architetto Max Fabiani, il Narodni dom, sede culturale e commerciale degli sloveni di Trieste. Alla vigilia della prima guerra mondiale gli sloveni possono così contare su una vasta e articolata rete di istituzioni culturali: circoli, scuole, biblioteche, case editrici, giornali, riviste, formazioni filodrammatiche e musicali, cori, bande ecc. Affiancandosi alle imprese economiche e commerciali, alle banche, alle cooperative, alle organizzazioni sociali e politiche, alle associazioni ginniche o sportive queste istituzioni testimoniavano di una comunità estremamente florida e vitale. A ciò vanno aggiunti i notevoli apporti individuali di numerosi artisti: tra la seconda metà dell’Ottocento e i primi decenni del Novecento sono infatti attivi a Trieste e nel suo immediato retroterra: i letterati Igo Gruden, Vladimir Bartol, Srečko Kosovel, per citare soltanto i principali; i musicisti Emil Adamic, Vasilij Mirk, Ivan Grbec, Marij Kogoj; i pittori Albert Sirk, Robert Hlavaty, Avgust Cernigoj. nonché molte altre personalità artistiche. La repentina ascesa culturale degli sloveni in questo periodo è resa possibile da vari fattori: il sostegno della politica asburgica, la forte “domanda” di cultura tra il popolo, la proliferazione delle istituzioni culturali nei grandi centri come Lubiana, la crescente alfabetizzazione delle masse contadine e operaie e, soprattutto,
dalla nascita di un’emergente borghesia slovena che individua nella cultura lo strumento principe per la realizzazione uno stato sloveno sovrano, ma federato all’Austria.
Le opposte aspirazioni di una parte della borghesia italiana irredentista, che anelava a congiungersi col Regno d’Italia e percepiva nel generale “rinascimento” degli sloveni una minaccia alla propria egemonia politica, sociale ed economica, provocano forti contrasti nazionali che l’Austria, per mantenersi al potere, lascia divampare. Dopo la dissoluzione dell’Impero nel 1918, l’arrivo dell’Italia a Trieste e la costituzione del confinante Regno serbo-croato-sloveno, i rapporti tra le due etnie s’incrinano ulteriormente peggiorando in modo drammatico col successivo avvento del fascismo. A subirne le conseguenze più tragiche è proprio la cultura slovena. Il 13 luglio 1920 le camice nere di Francesco Giunta incendiano il Narodni dom. Inizia la cosiddetta “bonifica etnica” ai danni dei circa 350.000 sloveni venuti a far parte dell’Italia in seguito al trattato di Rapallo del 1920. Ben presto, a Trieste e in tutta la regione, persecuzioni e violenze bandiscono dalla vita pubblica, per oltre un ventennio, lingua e cultura slovene. In questo senso, l’anno della loro morte ufficiale potrebbe considerarsi il 1928, quando – dopo aver chiuso le scuole, cambiato i nomi, proibito l’uso dell’idioma e abolito quasi tutte le istituzioni culturali della minoranza – il fascismo sopprime anche la stampa in lingua slovena. È, per un’infausta coincidenza, proprio l’anno in cui muore Italo Svevo.
(- continua)