Il Perugino a Città della Pieve

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di Nadia Danelon

 

Città della Pieve, uno dei luoghi più suggestivi della regione Umbria, accoglie i turisti con la magnificenza dei suoi palazzi rivestiti di mattoni: lungo le sue strade, il visitatore rimane colpito da infiniti angoli pittoreschi, che valorizzano un impianto urbano di epoca medioevale. Ma questa caratteristica, ovvero l’apparizione di borghi simili a dei paesaggi da presepio, è comune a tutto il centro Italia: vale la pena lasciarsi trasportare da questa atmosfera senza tempo, nel corso di brevi e lunghi viaggi che toccano tante mete celebri.

Tra i luoghi favoriti dal turismo culturale e religioso in Umbria, c’è naturalmente Assisi: ma basta percorrere alcuni chilometri in auto per raggiungere la graziosa Città della Pieve. Celebre per la produzione di zafferano, la cittadina è famosa anche per aver dato i natali ad uno dei più importanti pittori italiani: Pietro di Cristoforo Vannucci, meglio noto con il nome di Pietro Perugino (1448-1523). Il “Divin pittore”, attivo tra il Quattrocento e il Cinquecento è stato il maestro di un autore d’eccezione: Raffaello Sanzio da Urbino (1483-1520).

È proprio qui che, tra la tarda maturità e la vecchiaia, il Perugino ha prodotto alcuni tra i suoi dipinti più famosi: testimoni però di un’epoca di crisi del pittore. La prima commissione per la sua città natale gli arriva, infatti, nel 1504: Perugino ha ormai cinquantasei anni e, pur essendosi distinto nel secolo precedente, si trova a doversi confrontare con pittori più giovani (anche se di poco) e testimoni di una modernità assoluta. Non riesce a tenere testa alle troppe novità che, senza sosta, si affacciano sul panorama artistico.

A Firenze, in quegli stessi anni, Leonardo e Michelangelo si sfidano idealmente nella commissione per il Salone dei Cinquecento. Anche il suo geniale allievo Raffaello, nello stesso anno (1504), ha abbandonato la sua bottega: affascinato dalle novità del Rinascimento maturo, ha rivolto il suo orientamento stilistico verso quella direzione.

Sorprendentemente, in quel periodo, è addirittura il maestro a guardare all’opera dell’allievo. Avviene così che la Compagnia dei Bianchi (denominazione più nota della cosiddetta “Compagnia dei Disciplinati”), nel 1504 decide di commissionare al conterraneo Perugino un affresco raffigurante l’Adorazione dei Magi per il proprio oratorio. La sala, poco profonda ma piuttosto alta, è visitabile ancora oggi; la destinazione d’uso del complesso dell’oratorio non è cambiata, in tutti questi secoli: è ancora la sede della confraternita che più di cinque secoli fa ha voluto commissionare al Perugino il noto affresco. Una volta entrati, si rimane colpiti dalla monumentalità e dalla bellezza di questa scena, dotata di colori sgargianti.

La commissione è stata affidata, probabilmente nel corso di trattative condotte direttamente con il Perugino, nel febbraio 1504: i tempi di esecuzione dell’affresco, quindi, sono stati decisamente brevi (già da una comunicazione inviata al pittore e datata 1 marzo, si ha l’impressione che l’inizio dei lavori sia imminente). Forse, complice il riciclo di vecchi cartoni (pratica consueta al Perugino negli anni della crisi) l’opera può essere stata completata entro il 25 marzo dello stesso anno. Chi ha già visitato l’oratorio lo sa bene: ai lati della sala dove si trova l’affresco, c’è una coppia di lapidi in marmo con sopra riportati due scritti. Si tratta delle copie delle due lettere di commissione, autografe dello stesso Perugino, ritrovate nel 1835 all’interno di un tubo di latta. L’opera, sin dall’inizio, ha sofferto per una forte umidità: non si contano le campagne di restauro conservativo. I due documenti, in volgare pievese, testimoniano le trattative finanziarie per l’esecuzione del dipinto. Il Perugino ritiene che il lavoro possa valere 200 fiorini, ma da buon “paisano” è disposto ad accettarne 100 rateizzati: il Sindaco della Compagnia dei Disciplinati, però, insiste e riesce a pagare l’importo di 75 fiorini. Tuttavia, il pittore (forte della sua dignità di celebre maestro) riesce a farsi concedere almeno: “la mula col pedone che verrone a penctorà”.

Ecco, dunque, com’è nato questo dipinto: una scena armoniosa, dove il paesaggio sullo sfondo diventa un pretesto per collocarvi un corteo di cavalli e dromedari, dei cavalieri che ballano sotto ai pioppi a sinistra e delle scene di caccia sulla destra (Camesasca, 1969). In primo piano, c’è la vera e propria Adorazione dei Magi: in un connubio tra la cultura antica e quella contemporanea, i Magi indossano mantelli drappeggiati come toghe romane sopra costumi in seta operata di damasco. Ma è proprio questa la chiave di lettura del Rinascimento: l’antichità che rivive nella società contemporanea. Anche le pose delle figure, nella loro eleganza, sono ispirate a quelle delle statue classiche ed ellenistiche. Infine, facciamo caso alla stagione: Cristo viene fatto nascere in primavera, la stessa stagione in cui la natura rifiorisce dopo il lungo inverno (Bittarello, 2007). L’affresco è datato in basso: “A. D. M. D. IIII”.

Quattro anni dopo (siamo nel 1508), il Perugino riceve un’altra commissione per Città della Pieve: la richiesta è legata alla chiesa di Sant’Antonio Abate, nei pressi di Porta del Castello, che dal 1815 è invece intitolata a San Pietro. Per diverso tempo, questo luogo è stato la sede della Società dei Disciplinati di San Salvatore: questi, nel 1508, hanno messo in opera un’adeguata ristrutturazione della chiesa. In quello stesso anno viene realizzato anche un affresco sulla parete dell’altare maggiore: si tratta proprio dello sfortunato dipinto del Perugino. Infatti, dopo il terribile terremoto del 1861, l’affresco è stato staccato dalla parete per disporlo su tela: un’operazione talmente mal riuscita da rendere necessari dei continui restauri, tra cui quello recente del 2004.

L’opera raffigura Sant’Antonio abate, fra i santi Pietro Eremita e Marcello: ogni santo è accompagnato da una scritta con il proprio nome, mentre in alto (all’interno di una lunetta) troviamo il Redentore affiancato da alcuni cherubini: la parte superiore, più di altre, risente dell’intervento di collaboratori del Perugino (Camesasca, 1969). In generale, le due rappresentazioni sacre e la relativa cornice dipinta, risultano piuttosto deteriorate.

Differente è il caso delle due pale della cattedrale cittadina (ex pieve), che godono di un ottimo stato di conservazione: realizzate tra il 1510 e il 1514, raffigurano rispettivamente Il Battesimo di Cristo e la Madonna in gloria tra i santi Gervasio, Protasio, Pietro e Paolo. Questi dipinti cinquecenteschi svettano nel complesso di una cattedrale prevalentemente barocca, che dal punto di vista strutturale risulta ispirata ai canoni della controriforma: una navata unica con tante cappelle laterali, che nel ripetersi degli altari rievoca “…la presenza reale di Cristo durante la Messa negata dal pensiero protestante” (Bittarello, 2007).

Come si è detto, il Battesimo di Cristo risale al 1510: opera matura del Perugino, ricorda nel suo impianto compositivo gli esempi più celebri costituiti dai suoi dipinti di analogo soggetto del Kunsthistorisches Museum di Vienna e dell’affresco della Nunziatella di Foligno. In un documento datato 15 ottobre 1495, si scopre che Antonio Porchetti ha destinato cinquanta fiorini alla commissione di quest’opera, da collocare nella cappella del Battista. La cappella, all’epoca non ancora costruita, risulta terminata nel 1510: lo stesso anno in cui, a quanto pare, il Perugino ha concluso l’opera.

Nel complesso di questo dipinto, risulta evidente l’impronta poetica tipica dell’arte del Perugino: dove, in primo piano e con alle spalle un armonioso e delicato paesaggio, le figure assumono un pacato atteggiamento contemplativo. La prospettiva di queste scene, estesa fino al limite delle sue possibilità, non ha più solo una semplice funzione geometrica: il Perugino dimostra di avere superato il suo primo maestro Piero della Francesca, invitandoci invece a contemplare lo straordinario rapporto dell’uomo con l’universo che lo circonda, impregnato dell’armonica presenza del suo Creatore (Bittarello, 2007).

L’armonia, a tratti eccessiva ed innaturale, la ritroviamo anche quattro anni dopo nella più importante pala d’altare dell’edificio (cattedrale solo a partire dal 1600), commissionata allo stesso Perugino: datata e firmata al centro del registro inferiore “PETRVS CHRISTOFERII VANNVTI DE CASTRO PLEBIS PINXIT MD XII.II”. Inizialmente, l’opera viene ricordata all’interno di un polittico: noto, appunto, come Polittico di Città della Pieve (Camesasca, 1969). Commissionato nel 1507, ha compreso: una scena centrale (quella in analisi, conservata ancora in loco), un timpano con l’immagine dell’Eterno, una predella e una cassa. Le parti mancanti risultano disperse almeno dalla prima metà del ‘600: a quel punto, la pala superstite viene tolta dall’altare maggiore per essere collocata sul retro dell’elemento, al centro dell’abside.

Sono passati solo quattro anni dalla prima pala da lui realizzata per l’attuale cattedrale cittadina: ma già si notano, evidentissime, le caratteristiche della fase tarda del pittore. Dotate di un “linguaggio devozionale più semplificato” (Bittarello, 2007), le figure sono ormai tutte collocate in primo piano: tanto in cielo, quanto sulla terra. Se al centro della dimensione terrena ci sono i riconoscibilissimi Pietro e Paolo, ai lati troviamo i santi Gervasio e Protasio. Si tratta dei protettori della città (basti solo pensare al fatto che il primo toponimo cristiano riferito a Città della Pieve, nel Il secolo, è stato Pieve di San Gervasio): infatti, essi esibiscono una coppia di orifiammi con lo stemma cittadino, formato da un castello di colore avorio su campo rosso. Proprio in questo particolare si può rintracciare la caratteristica ricordata all’inizio della descrizione, ovvero la presenza di una componente armonica talmente estrema da risultare quasi innaturale: i due orifiammi non seguono affatto la direzione del vento, ma risultano speculari e quindi simmetrici l’uno rispetto all’altro.

Tre anni più tardi, nel 1517, il Perugino realizza il suo ultimo dipinto per Città della Pieve: le vicende che hanno scandito la storia della chiesa di Santa Maria dei Servi, più volte rimaneggiata, non hanno consentito una completa conservazione di questo interessante ciclo di affreschi. Il pittore ha decorato la cappella dedicata alla Madonna della Stella, la prima sulla destra per chi entra in chiesa: le vicende di questo ambiente hanno inizio nel XIII secolo quando questa struttura viene costruita, isolata e autonoma. Entro la prima metà dello stesso secolo, a poca distanza, vengono realizzati anche il convento e la chiesa dell’ordine dei Servi di Maria. Nel 1343, dopo numerosi ampliamenti, l’edificio di culto più imponente finisce per inglobare anche la cappella “della Stella”.

In pratica, quello che i visitatori (non devoti, la chiesa è da tempo sconsacrata ed è la sede del Museo Civico-Diocesano) si trovano davanti è una porzione corrispondente a circa ⅓ di quella che è stata a suo tempo la decorazione della cappella: corrisponde principalmente alla quasi completa Deposizione dalla Croce, mentre del Compianto sul Cristo morto si conservano solo alcune figure (alcuni apostoli, le Pie donne e l’Eterno circondato dagli angeli). Il ciclo viene però ricordato come molto più esteso. Nel XVII secolo, epoca di grandi rimaneggiamenti, abbiamo perduto l’angelo annunziante e la Vergine annunziata in corrispondenza dell’ingresso della cappella e la Deposizione nel sepolcro della parete sinistra, oltre a larghe porzioni degli affreschi ancora visibili. Si conserva solo parzialmente la scritta che costituisce la testimonianza storica di esecuzione degli affreschi della cappella: “[QU]ESTA HOPERA FERO DEPENGERE LA COMPAGNIIA DELLA S[TELL]A COSSÌ DICTA IN LI ANNI D.NI MDXVII PETR[US]” (sembra che la scritta sia stata più volte rimaneggiata nei tempo).

Nel corso del XVII secolo, proprio all’epoca della grande ristrutturazione, al posto della cappella viene costruita una cantoria: cosa capita agli affreschi poco più che centenari? Delle demolizioni abbiamo già parlato. Al centro della Deposizione dalla Croce viene aperto un passaggio (proprio in alto e in corrispondenza della figura di Cristo, che naturalmente risulta quasi del tutto perduta), mentre tutto il resto dell’affresco viene nascosto dietro a una copertura in mattoni. Devono passare circa duecento anni prima che qualcuno si accorga di quanto è stato nascosto: la scoperta spetta al pittore e storico dell’arte tedesco Johann Anton Ramboux, che nel 1834 scopre il ciclo e lo documenta in alcuni disegni. Da quel momento, gli affreschi del Perugino sono meta di continui pellegrinaggi di artisti in cerca di suggestioni romantiche: puristi, nazareni e (naturalmente) preraffaelliti. Nel 1880, viene ufficialmente demolita la cantoria e i gli affreschi superstiti possono essere ammirati senza ostacoli.

Ecco cosa ne rileviamo: il Perugino ha saputo esprimervi la totale drammaticità dell’avvenimento, non abbandonando però la sua consueta armonia e la classicità a livello compositivo. Nella Vergine svenuta per il dolore si ricorda dei dipinti di Giotto ad Assisi, quindi strizza l’occhio alla cultura figurativa medievale in Umbria (legata alle Laudi). Nelle parti ancora visibili del Cristo morto, invece, rende omaggio al suo allievo Raffaello: questo dettaglio, infatti, rievoca la Pala Baglioni.

È molto bello constatare che, quando un autore finisce per lasciare dei capolavori nel luogo in cui è nato, essi sembrano quasi un omaggio, da parte di un personaggio ormai maturo ed affermato, al luogo dove ha mosso i primi passi ed incominciato a sognare.

 

1.

Adorazione dei magi

Affresco 1504

 

 

2

Battesimo di Cristo

Tempera su tavola, 1510

 

3.

Deposizione dalla Croce

Affresco, 1517

 

4.

Deposizione dalla Croce

Affresco, 1517

(particolare)