Cubico

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di Giuseppe O. Longo

 

Entrando nel massiccio palazzo della Dutre, un blocco perfettamente cubico di specchiante vetrocemento sopra il quale veleggiavano immense nuvole bianche e sontuose come galeoni, ebbi l’impressione di accedere alla sede della mia azienda: lo stesso massiccio portale in stile assiro-babilonese, lo stesso atrio imponente sostenuto da colonne doriche di diaspro e olivina, lo stesso banco di bronzo del ricevimento, presidiato da quattordici uscieri gallonati con berretti di diverso colore a seconda del grado e dell’importanza (conoscevo benissimo quel codice cromatico, era anche il nostro…). Mi furono date indicazioni concise e superciliose, con cenni del capo più che con le parole. Sul pavimento riconobbi le stesse tracce luminose policrome fino agli ascensori, ai bagni, ai salottini d’attesa, in tutto e per tutto uguali a quelli che avevo lasciato un’ora prima alla Rudet. Non ero mai entrato nella sede della Dutre, ma mi orientavo con sicurezza, anche se mi sentivo un po’ frastornato per quella somiglianza perfetta. Il disagio aumentava mentre salivo, a bordo di un frusciante ascensore di alluminio anodizzato, fino al quattordicesimo piano. Dalle ampie vetrate di cristallo molato della cabina vedevo l’atrio immenso, gli altri ascensori che salivano e scendevano, le snelle strutture del cubo. Ancora una volta mi chiesi perché fossi venuto lì. La ragione esplicita e palese era un appuntamento con il mio omologo, l’amministratore delegato della Dutre, per la definizione di un contratto paritario (non so chi avesse telefonato o scritto a chi): ma era la ragione profonda che mi sfuggiva e m’inquietava. Tanto più che quando arrivai al suo ufficio, la segretaria m’informò che Mr Dupont (il “Du” della Dutre) era andato a trovare il suo omologo… consultò un foglio… Mr Rudiger (il “Rud” della Rudet) alla… alla Rudet, per la definizione di un contratto paritario. Mi guardai intorno: la scrivania, il classificatore, il computer, la fotocopiatrice, il fax, il telefono, le tende, la sansevieria in vaso, il vassoio con le caramelle, perfino le lampade: l’ufficio della segretaria di Dupont era identico a quello della mia, anzi guardandola meglio, vidi che anche lei era identica a Ilide. Fui colto da una lieve vertigine. La ragazza – disse che si chiamava Elide – mi sostenne e vagamente allarmata mi accompagnò nella vasta stanza di Dupont e mi fece accomodare nella sua grande poltrona di pelle nera opaca. Sulla scrivania scorsi il mio ritratto, anzi il suo ritratto… Il malessere aumentò. Per distrarmi mi feci forza e andai all’ampia vetrata, cosa che alla Rudet non facevo mai. Il panorama vastissimo era costellato di lucidi blocchi cubici di vetrocemento, sui quali correvano veleggiando enormi cumuli di un candore accecante. Quella schiera di edifici si prolungava nelle coordinate ortogonali secondo le linee regolari di un matrice infinita: una scacchiera interminabile le cui caselle erano occupate a perdita d’occhio dalle inquietanti repliche di un unico solido, massiccio e sfavillante. Anche gli enormi stemmi aziendali di marmo rosa, di granito bianco e di quarzo si ripetevano identici sulle facciate: cambiava soltanto il nome della ditta. Sulle pareti a specchio di ogni edificio si riflettevano un lembo di cielo e le file dei cubi circostanti, che a loro volta riflettevano gli edifici vicini, moltiplicandone il numero e la posizione nello spazio in un gioco vertiginoso di rimandi a creare una galassia luminescente. Allungai una mano, sapevo che nel primo cassetto del mobile alla mia destra c’era un binocolo che non avevo mai usato. Lo puntai verso il cubo più vicino: al quattordicesimo piano un uomo, in piedi dietro la vetrata, mi stava osservando con un binocolo. Spostai lo strumento, e con sincronismo delirante e perfetto, vidi, o meglio avvertii, che tutti i miei colleghi spostavano i loro binocoli, puntandoli verso altri sé stessi, compreso me, il mio me stesso. Il mondo era coperto da un’unica, immensa, replicativa e sterminata Dutre. O Rudet.