La Bohème al Verdi

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In un nuovo allestimento La Bohème è tornata al Verdi di Trieste nel dicembre scorso

di Luigi Cataldi

 

Amatissimo dal pubblico fin dal debutto al Teatro Regio di Torino il primo febbraio 1896, il capolavoro di Puccini, Illica e Giacosa fu inizialmente disprezzato dalla critica. Gustav Mahler, per esempio, disse che considerava sia La Bohème di Puccini che quella di Leoncavallo (1897) «puzzolenti». Riferisce quest’olfattivo giudizio Eduard Hanslick nella recensione all’edizione viennese dell’opera pucciniana diretta proprio da Mahler nel novembre 1903: gran stroncatura per compositore e composizione; grandi lodi per il direttore, al quale anzi è fornita una stringente giustificazione: dovendo scegliere fra mediocrità, ha scelto, «delle due gemelle puzzolenti, quella che ha un odore meno terribile». Hanslick trova «di una bruttezza quasi indescrivibile le quinte parallele che marciano su e giù». Si tratta, egli dice, di un realismo che riduce la musica a «sottofondo» per «l’insensato chiacchiericcio di dialoghi di pura quotidianità». Oggi (si vedano in particolare le monografie pucciniane di Michele Girardi e Julian Budden) simili giudizi sono superati.

Il «chiacchiericcio» che infastidiva Hanslick è in verità il “suono” della nascente società di massa, in cui vivono anche i quattro «arditi avventurieri» (così li definisce Henri Murger nelle parole, da Scènes de la vie de bohème, 1845-49 e in volume 1851, da cui viene il soggetto, poste in esergo al libretto), Rodolfo, Marcello, Colline e Shaunard. Essi cercano di marcare la propria diversità di sacerdoti dell’arte e del pensiero, sfidando la morale borghese comune e la mercificazione di ogni cosa a costo della miseria e della marginalità sociale. Sono giovani e deridono i vecchi e i bigotti (Alcindoro, Benoit), disprezzano il denaro (di cui sono solitamente privi, ma che sperperano se gliene capita un po’ per le mani) e le autorità, hanno costumi amorosi assai liberi e altrettanto libere relazioni con le loro grisette. Sono e restano quel che sono, senza evoluzione alcuna. Li si incontra in una gelida e malsana soffitta nel primo quadro e li si ritrova nello stesso luogo nell’ultimo, mentre scherzano su sovrani e potenti della terra. Se c’è una storia da raccontare lo si deve a Mimì, che instaura una relazione più profonda con Rodolfo (la coppia tragica) e in parte anche a Musetta che fa lo stesso con Marcello (quella leggera). Mimì ama, si unisce a Rodolfo ed è da lui allontanata nell’inverno perché la spelonca malsana in cui vivono aggrava la tisi di cui lei soffre. Ma, dalla confortevole casa del «viscontino» che la mantiene, Mimì torna per morire fra le braccia dell’amato, che invece non può darle alcun aiuto. La sua morte misura il vuoto delle esistenze dei bohémienne, l’inefficacia delle loro azioni, la vanità della loro religione dell’arte. Colline, il filosofo, pur sapendo che l’amica non ha scampo, impegna per lei la sua «vecchia zimarra», alla quale intona un canto funebre senza ombra di ironia. Non curvò mai «il logoro dorso ai ricchi ed ai potenti» e nelle sue tasche passarono «come in antri tranquilli filosofi e poeti». Puccini vi anticipa le stesse note lugubri che si ascolteranno in morte di Mimì: è la fine della loro bohème. È la loro sconfitta. La vicenda ha qualcosa in comune con quella di Traviata. Anzi, nell’adattamento teatrale del romanzo di Murger di Théodore Barrière (1849), che Illica tenne presente, è addirittura identica, visto che lì lo «zio milionario» di Rodolfo induce Mimì a lasciar libero il nipote di sposare una donna benestante, come nell’opera di Verdi fa il signor Germont con il figlio Alfredo. Puccini cancellò ogni traccia di una simile parentela con il capolavoro verdiano, così le due vicende assumono significati diversi. Mentre Traviata è un atto d’accusa contro l’ipocrisia e i pregiudizi della morale borghese, La Bohème assume il carattere di una pessimistica e dolorosa autocritica del mondo scapigliato di cui anche Puccini, negli anni di formazione milanesi, era stato parte: intelletti brillanti, originali, disinteressati, votati a cose ideali, che del potere, della società e della morale comune vedono le contraddizioni, si ritrovano schiacciati e vinti dal mondo che credevano di deridere e dominare. Con la morte di Mimì, non solo si chiude la loro gioventù, ma crolla un mondo intero. Peraltro per loro stessi, la gioventù si identifica con l’amore. «Gioventù mia tu non sei morta», dice Marcello ricongiungendosi a Musetta; «o gioventù mia breve» sospira Rodolfo pensando a Mimì che lui stesso ha allontanato da sé. E il comico, che è parte cospicua dell’opera, letteralmente annega nel tragico, di cui sentiamo l’incombere fin dal primo quadro, quando Mimì appare, già accompagnata dal motivo della malattia. La musica dà corpo all’idea pessimistica della brevità e della vanità dell’esistenza. Il quarto quadro è tutto di «ritorni logici», scrive il compositore, temi che riprendono quelli ascoltati nel primo, legati a persone o a oggetti (la cuffietta rosa, la chiave della stanza) o a circostanze (la malattia, l’inclinazione ai «castelli in aria»). Così nel quadro finale la storia di Mimì e Rodolfo è rievocata dai suoni oltre che dalle parole. Ma quanto quella storia suona mutata, irripetibile, irrevocabilmente finita! Ricordarla prima della morte è tutto ciò che resta.

Economia di mezzi e aderenza alla tradizione hanno dato forma e sostanza all’allestimento triestino. Il regista, Carlo Antonio De Lucia, che ha firmato anche le scene insieme a Alessandra Polimeno, ha rivestito, con arredi e proiezioni, il medesimo spazio adattandolo a soffitta, quartiere latino e “barriera d’Enfer”. Ciò determina qualche incongruenza nel primo e nell’ultimo quadro (l’anacronistica torre Eiffel, la vetrata degna di un super attico piuttosto che di un misero tugurio), ma è efficace negli altri quadri, in particolare nel secondo, in cui le masse in scena seguono il concitato ritmo dell’azione. Adeguato è parso anche il lavoro sulla recitazione dei cantanti. Una regia tradizionale, insomma, ma assennata e presente. Coerenti con la messinscena anche i costumi di Giulia Rivetti. La direzione musicale è stata affidata allo statunitense Christopher Franklin, presenza abituale al Verdi. Superata qualche incertezza iniziale nell’accordo con le voci, l’esecuzione è parsa scorrere anch’essa nel solco della tradizione. Sicura l’orchestra del Verdi; buona la prova del coro e dei Piccoli Cantori della Città di Trieste, rispettivamente preparati da Paolo Longo e da Cristina Semeraro e ben coordinati sulla scena. Lavinia Bini è una Mimì convincente sia nella recitazione (passionale, capace di rendere senza eccessi la condizione di malata) sia vocalmente: corposa nelle regioni centrali e gravi del registro, cristallina e agile in quelle acute; buon fraseggio con tecnica di emissione sicura. Alessandro Scotto Di Luzio, forse perché non del tutto ristabilito dall’influenza che gli ha impedito di partecipare alla prima, è parso un po’ meno coordinato con gli altri nel gruppo di voci. Ciò ha reso la sua recitazione un poco fredda. Federica Vitali, di vocalità esuberante come richiede il personaggio, bene integrata nel gruppo sia scenicamente che vocalmente, ha dato vita a una spigliata Musetta. Convincente anche Leon Kim (Marcello): voce forte, sicura, ma capace di fraseggi raffinati; recitazione disinvolta. Fabrizio Beggi è un Colline che sa passare dalla comicità arguta alla sincera commozione di «Vecchia zimarra» con credibile umanità. Clemente Antonio Daliotti è un adeguato Schaunard sia vocalmente che scenicamente. Alessandro Busi ha mostrato presenza scenica e buona vocalità nel suo doppio ruolo (Alcindoro/Benôit). Bene anche Andrea Schifaudo (Parpignol), Damiano Locatelli (il sergente dei doganieri), Giovanni Palumbo (doganiere), Andrea Fusari (venditore ambulante). [Rappresentazione del 16/12/2022]

 

1.

Che gelida manina…